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Eco-rifugiati, non agire è vergognoso

Fino all’autunno scorso, l’allarme per una presunta invasione di migranti si è prepotentemente imposto all’opinione pubblica continentale, monopolizzando le prime pagine e divenendo prioritario nelle agende dei governi membri. Successivamente – c’era da aspettarselo – si è avuta una parziale pausa, con uno scivolamento in terza pagina di articoli, cifre e posizioni urlate, preconcette o ideologiche. 

Ora, dopo un inverno mai arrivato, la primavera anticipata è già realtà. Con essa l’inevitabile ripresa dei flussi più ingenti di migranti verso la Fortezza europea. Migranti che in buona parte fuggono da guerre e violenza. Solo lo scorso anno si sono messi in fuga 11 milioni di persone tra Siria, Afghanistan e altre regioni straziate del pianeta. Si tratta di chi ha diritto allo status di rifugiato, con percorsi di tutela e inserimento privilegiati (si fa per dire). 

Ma cosa accade a chi è costretto a fuggire dalle calamità naturali e dagli effetti violenti dei mutamenti climatici? Si tratta di quegli eventi meteorologici estremi (inondazioni, siccità, tempeste) che costringono una media di 22,5 milioni di migranti climatici l’anno, dal 2008. E il trend sta crescendo. Questi rifugiati finiscono in un limbo giuridico, senza diritti, o aiuti garantiti. Il diritto internazionale, infatti, non prevede meccanismi che permettano a chi scappa dai disastri climatici di ottenere asilo in un altro Paese.

Il climate change, di cui ancora pochissimo sembra abbiano capito i governi d’Europa, colpisce anche l’Italia. Il laconico eppure chiarissimo titolo de l’Unità, Fuori Stagione, in prima pagina l’1 febbraio scorso, denuncia un Paese senza inverno e un record di siccità con fiumi in secca e colture a rischio. Per non parlare delle polveri che soffocano le aree metropolitane del centronord. Secondo il CNR-ISAC, dicembre 2015 è stato il più secco dell’intero periodo storico dal 1800 a oggi, con una piovosità minore del 91% rispetto alla media; senza dimenticare che venivamo da un autunno che era stato l’ottavo più asciutto in assoluto. Ciononostante, in Italia possiamo ancora far finta, attendere le piogge, risarcire i coltivatori, acquistare alimenti dall’estero: fingersi guariti non rende immuni dalla malattia, diceva il poeta. Ma a sud del Mediterraneo anche questo esercizio di finzione autodistruttiva si fa impraticabile. 

Per rendere l’idea della gravità del tema basta richiamare un recente reportage di Repubblica in merito all’Etiopia, dove si registra la peggiore siccità negli ultimi 30 anni: 10,2 milioni di persone colpite da insicurezza alimentare. Lì la presenza di El Niño ha portato alla perdita di diversi raccolti, decimato il bestiame e trascinato circa 10,2 milioni di etiopi nell’insicurezza alimentare. Lo ha affermato la FAO presentando un piano d’intervento d’emergenza per proteggere gli allevamenti e ristabilire la produzione agricola nel paese del Corno d’Africa. L’accesso a pascoli e a fonti d’acqua continuerà a diminuire fino all’inizio della prossima stagione delle piogge a marzo. Come conseguenza, il bestiame continuerà a perdere peso, ad ammalarsi, a produrre meno latte e molti capi moriranno. Le riserve di raccolti sono praticamente esaurite, lasciando i contadini vulnerabili senza mezzi di produzione per la prossima stagione di semina che inizia a gennaio – in molti casi hanno perso semi preziosi continuando a seminare nella speranza di piogge che non sono mai arrivate. Come conseguenza, i tassi di malnutrizione nel paese sono aumentati e il numero di ricoveri di bambini per casi di malnutrizione acuta sono al livello più alto mai registrato.
La FAO assisterà 1,8 milioni di contadini e allevatori nel 2016 per ridurre le deficienze alimentari e ripristinare la produzione agricola e le fonti di reddito. Ma El Niño colpisce anche il resto del continente Africano, cagionando la diminuzione dei raccolti in Africa australe. Il Sud Africa ha recentemente dichiarato lo stato di siccità in cinque provincie – le zone principali per la produzione di cereali – e il Lesotho ha proclamato un piano di risposta alla siccità mentre lo Swaziland sta implementando piani di razionamento dell’acqua a seguito della riduzione delle proprie riserve idriche. Per affrontare il fenomeno de El Niño a livello globale, la FAO sta implementando azioni di risposta in 20 paesi in Africa, America latina e i Caraibi, nel Pacifico del Sud e in Etiopia. Altri 21 paesi vengono monitorati costantemente. 

In questo quadro, di fronte alle emergenze ambientali interne ed esterne, nessuno sembra voler realmente arginare quei fattori che sono i principali responsabili del cambiamento climatico. Come hanno sostenuto scienziati e ambientalisti, gli accordi di Parigi (il Cop 21) sono deboli e non risolvono il problema nel breve periodo. Deboli perché l’accordo è vincolante ma – come al solito – non prevede meccanismi di sanzione. Inefficaci perché gli obiettivi proclamati prevedono impegni del tutto insufficienti: anche se tutti i Paesi firmatari facessero la loro parte – cosa non scontata, visto che mancano ad oggi concreti strumenti di controllo e sanzione – la temperatura salirebbe comunque sopra i 3 gradi. 

A ciò si aggiunge la miopia ridicola di una Commissione Europea che aumenta i limiti di emissione di inquinanti, e in particolare gli Nox, per gli autoveicoli. Una scelta assurda che però pone di fronte al seguente vincolo: se proseguiamo con scelte e pratiche dannose per l’ambiente, dobbiamo assumerci la responsabilità e la tutela delle persone che per prime ne pagano le conseguenze. Tecnicamente la Convenzione di Ginevra non concede ai migranti ambientali lo status di rifugiati. Non agire è vergognoso. L’Europa DEVE varare una normativa che permetta a chi scappa dai cambiamenti climatici di ottenere diritto d’asilo.

 

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