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“Il fragile e il prezioso”. Intervista sulla Bioetica a Luigi Alici

La vicenda straziante del  DJ Fabo, come in passato quelle di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby, sta facendo discutere l’opinione pubblica e la politica italiana. Intanto il 13 marzo il progetto di legge sul “testamento biologico” è approdato, alla Camera. Il dibattito sul “fine vita” sta facendo, ovviamente, emergere sensibilità e posizioni diverse nell’opinione pubblica.  Fino a che punto può si può spingere l’autodeterminazione di una persona? E’ una domanda cruciale per capire il cuore dei problemi affrontati dalla Bioetica.

Ne parliamo, in questa intervista, con Luigi Alici, già Presidente Nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, filosofo e docente all’Università di Macerata. Tra le sue numerose pubblicazioni vogliano ricordare il volume, uscito da poco per la casa editrice Morcelliana, “Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta di piedi”.

Professore, in questi giorni abbiamo assistito,  con un poco di spettacolarizzazione, a fatti che toccano il senso della vita. Ovvero il morire con dignità. Mi riferisco alla vicenda del DJ Fabo, e di altri malati costretti ad andare in Svizzera per porre fine, attraverso il “suicidio assistito”, alle loro immani sofferenze. Straziante è stato l’appello di Fabo perché lo si liberasse dal suo inferno di dolore. Lei è un filosofo morale, che insegna nella sua università Etica della vita, ed è anche un credente. Qual è il suo giudizio su questa vicenda? 

 

Il giudizio morale su un’azione – doveroso per chi la compie, possibile ma difficile per un osservatore esterno – non deve mai trasformarsi in un giudizio sulla persona. La persona “oltrepassa” sempre le proprie azioni e nessuno può attraversare la soglia della coscienza con la pretesa di leggerla “in chiaro”. In nessun caso: né per screditare DJ Fabo come ostaggio e vittima di una congiuntura disgraziata fra menomazione fisica e strumentalizzazione politica; né per celebrarlo come profeta coraggioso e militante dell’autodeterminazione… In presenza di una fragilità ferita abbiamo altre risorse rispetto alla nettezza del giudizio (di cui il circo mediatico ha bisogno, per sceneggiare un conflitto tra opposte tifoserie…): le risorse discrete e silenziose della partecipazione, della memoria, della preghiera, che debbono tradursi in impegno solidale verso chi vive situazioni analoghe di sofferenza…

Sul piano etico, in ogni caso, la questione di fondo non si risolve in un “tiro alla fune” fra tradizionalisti e progressisti, e meno ancora stilando una graduatoria fra la sanità pubblica in Italia e la sanità privata in Svizzera. Nel dibattito sull’energia nucleare (produrla o comprarla in Paesi vicini), si argomentò giustamente che ciò che conta è dare un giudizio sulla “cosa”, a prescindere da quel che accade intorno a noi, altrimenti saremmo sempre schiavi di circostanze esterne.

 

Per la teologia “tradizionale” la vita è dono di Dio.  Per alcuni teologi contemporanei, vedi Hans Kung, la vita è certamente dono di Dio ma allo stesso tempo è un compito dell’uomo. E dunque messa a disposizione perché ne faccia un uso responsabile. Questa “messa a disposizione” vale anche per la fase finale della vita.  E’ su questa base, che ho semplificato forse troppo, che si fonda, a determinate rigorose condizioni, il “suicidio assistito”. Le chiedo questa “autodeterminazione” non è coerente, anche per un credente, con una visione responsabile della vita? 

 

In tutta la tradizione occidentale – non solo cristiana – si è sempre riconosciuto che la vita è insieme dono e compito. La responsabilità, tuttavia, anche etimologicamente, è sempre una risposta, non un inizio. Noi non siamo “autori” della nostra vita per il semplice fatto che non ne possediamo l’origine: possiamo, con la procreazione assistita, intervenire sulle modalità di trasmissione della vita, ma non possiamo “fabbricarla”; né possiamo, con un suicidio, “riprendercela”. Il termine “autodeterminazione” è equivoco se confonde autonomia morale (di cui abbiamo bisogno per esercitare la responsabilità) e autonomia ontologica, che non è invece nelle nostre disponibilità. Il “mio” essere non è mai assolutamente mio: dal concepimento fino alla morte. Chi ha vissuto la tragedia del terremoto lo capisce benissimo, ma non per questo deve farsi paralizzare dal fatalismo…

L’autodeterminazione è incoerente con una visione responsabile della vita quando assolutizza l’autonomia individuale e ignora il contesto storico e comunitario delle nostre scelte. La cultura ambientalista, ad esempio, denuncia l’autodeterminazione come un pericoloso eccesso antropocentrico, all’origine dell’aggressione sistematica alla biosfera… D’altro canto, non possiamo immaginare che una scelta soggettiva possa prescindere completamente dall’età (come ritengono i difensori dell’eutanasia infantile) o da condizionamenti psico-sociali, patologie invalidanti, biografia personale… Un’autodeterminazione astratta e “allo stato puro” semplicemente non esiste. Per questo, dobbiamo distinguere il malato grave che dichiara, essendo ormai prossimo alla fine della vita, di voler morire (che spesso significa: “Non voglio soffrire, non voglio essere solo…”), rispetto a chi invece pronuncia la stessa frase perché non accetta la propria condizione esistenziale (non solo un handicappato, ma forse anche un ergastolano al quale è impedito il suicidio, che considera la perdita della libertà peggio del dolore o dell’invalidità). Non possiamo confondere un’ammissione di impotenza, spesso frutto di una patologia atroce, con una volontà di potenza teorizzata a tavolino. Dobbiamo imparare a fare un elogio della vita che non suoni irrispettoso per chi soffre, mentre incoraggiare l’ammissione di impotenza per legittimare il paradigma individualistico della volontà di potenza è la cosa peggiore, una strumentalizzazione deplorevole.

 

Una Chiesa che predica il Vangelo della Misericordia potrebbe aprirsi verso chi compie un gesto di autodeterminazione?

 

La misericordia nella tradizione cristiana – da Agostino a Tommaso – non ha limiti, in quanto attesta che l’amore di Dio è infinitamente “più esagerato” di ogni abisso della miseria umana. In questo senso, essa è il nome e il volto di Dio, non un espediente retorico di papa Francesco per riavvicinare la chiesa alla vita della gente! La diffidenza nei confronti di un “eccesso di misericordia” tecnicamente è una bestemmia contro Dio e dimentica che il peccato contro l’amore è sempre per difetto, mai per eccesso.

In questo senso la misericordia si apre a chiunque accetti di lasciarsi abbracciare, accogliere e perdonare; essa non incentiva il male e non avalla alcuna forma di complicità con esso, perché è un’alternativa radicale alla miseria, non una sua equivoca compagna. Aprirsi alla misericordia non significa quindi essere confermati nella propria condizione; significa entrare in una relazione che rigenera, responsabilizza e quindi mobilita la risorse positive della gratitudine, aiutando a risolvere ogni rivendicazione individualistica entro un processo aperto – e sofferto – di reciprocità: l’autodeterminazione diventa responsabilità.

 

Per lei il vero conflitto, sui temi di bioetica, è tra bioetica ideologica e bioetica critica. Un conflitto che va al di là della dicotomia “credenti e non credenti”. E propone una bioetica  dialogica. Cosa vuol dire?

 

L’irrigidimento ideologico è un pericolo che possiamo correre tutti; per una credente potrebbe essere la “trave nel proprio occhio” da togliere per prima, per poter vedere la pagliuzza nell’occhio del fratello. Impostare la riflessione intorno alla fragilità della vita umana a partire da una logorante (e sterile) guerra di posizione fra “bioetica laica” e bioetica cattolica” significa arrendersi a una deriva ideologica, che alla fine semplifica le questioni, predilige gli slogan, cavalca le intimidazioni mediatiche, riduce il confronto a una questione puramente quantitativa di maggioranze e minoranze. In una società multiculturale, in cui il pluralismo rischia spesso di sfumare nel relativismo, il dialogo non è una strategia per mimetizzare la conquista del consenso: è un atteggiamento etico che prende sul serio la fragilità, cercando di interrogarsi concretamente sul senso profondo dell’etica della cura, attraverso una rigorosa ricognizione dei problemi, resa possibile da un’opera preventiva di “ecologia semantica”. Un linguaggio purificato e guarito dalle infiltrazioni dell’approssimazione e del disprezzo non sarà l’ultimo passo, ma dev’essere il primo. Questo vuol dire “bioetica in punta di piedi”: inoltrarsi a piedi scalzi, senza elmo né corazza, come Mosè sull’Oreb, nei territori dolenti delle vite malate, senza scambiare l’ascolto con una rinuncia alla verità.

 

Lei ha scritto un libro molto interessante, “Il fragile e il prezioso” è il titolo del saggio, propone di pensare a queste due categorie, al di là dell’opzione relativista e fondamentalista,  come polarità di un’etica della cura. Come si dovrebbe sviluppare questa etica?

 

Per liberarci dal mito prometeico della libertà assoluta dobbiamo ripartire dalla fragilità, che è limite insuperabile della vita personale, al quale spesso s’aggiunge anche una ferita. La vita umana non è preziosa nonostante la fragilità, ma proprio grazie alla sua fragilità; è preziosa non soltanto perché è unica, ma anche perché è capace di dare e ricevere cura. Oggi abbiamo perso il senso umano fondamentale dalla cura (elaborato dal pensiero antico, prima ancora che cristiano), e ne abbiamo professionalizzato e settorializzato solo aspetti specifici. C’è infatti una cura come pratica specialistica, che risponde a situazioni di particolare bisogno cui il soggetto non può far fronte da solo (la cura medica, ma anche la cura educativa di soggetti svantaggiati, disabili, devianti…), ma prima ancora la cura è una forma fondamentale di relazione tra persone fragili, in cui tutti dobbiamo sentirci coinvolti.

Nell’eclisse di questa frontiera elementare dell’umano, prevalgono le nicchie specialistiche, cui si “appaltano” passaggi particolarmente difficili – e solitari – della nostra esistenza. Invece quando le possibilità del curare (to cure) si riducono, lo spettro delle possibilità del prendersi cura (to care) dovrebbe ampliarsi, attraverso i registri della confidenza, dell’ascolto, dell’empatia, dell’accompagnamento. Esistono persone inguaribili, mai incurabili. Quando la fragilità è offesa e le scelte si fanno difficili, allora ci sarebbe bisogno di “cellule del buon consiglio” (P. Ricoeur), in cui l’esercizio della libertà sia frutto di una deliberazione condivisa. Il mito individualistico dell’autodeterminazione rischia invece di ridurre gli altri (i parenti, il personale medico e infermieristico, la società nel suo complesso…) a “protesi strumentali” delle mie decisioni. Non c’è solo l’autonomia del malato, c’è anche quella di chi gli sta vicino, che deve “giocarsi insieme” alla prima, evitando ricatti affettivi, scorciatoie pericolose e strumentalizzazioni reciproche.

 

La morte del DJ è stato anche un atto di accusa verso lo Stato italiano incapace di munirsi di una legislazione adeguata. Adesso, grazie al caso Fabo, la proposta di legge, finalmente approderà, alla Camera il prossimo 13 marzo. Uno dei punti di contrasto è quello che inserisce la scelta,  per il paziente , di dire no all’alimentazione e idratazione artificiale. come risolvere questo contrasto?

 

Alimentazione e idratazione non sono, concettualmente, trattamenti sanitari: sono un altro modo, commisurato alle condizioni del paziente e auspicabilmente non troppo invasivo, di aiutarlo a mangiare e bere, accompagnando le funzioni vitali fino al loro esaurimento. Non sono un trattamento sanitario perché non c’è una risposta terapeutica attesa, alla luce della quale commisurarne la reale utilità. La loro sospensione si può quindi configurare come un atto di eutanasia, quando è decisa non sulla base di una inefficacia terapeutica, ma per altri motivi, come metter fine in modo indiretto a un dolore insopportabile.

La riserva riguarda semmai il carattere “artificiale” e di strumentalità invasiva di questi supporti vitali. Ma è sempre pericoloso chiedere alla legge di perimetrare questa zona grigia, che dovrebbe essere rimessa alla saggezza di una “cellula del buon consiglio”. Non possiamo reagire a un deficit di etica pubblica con un surplus di legislazione. Stranamente, oggi rifiutiamo la crescente invadenza burocratica nella vita privata e poi vorremmo delegare al legislatore soluzioni che esonerino la nostra responsabilità, dimenticando che la legge spesso riflette contingenti rapporti di forza, traducendoli in convenzioni normative: la legge italiana consente di abortire di norma nei primi 90 giorni, ma sappiamo bene che tra un feto di 89 giorni e uno di 91 biologicamente e ontologicamente non c’è alcuna differenza. La Commissione Warnock (1984) ha coniato la nozione strampalata di “pre-embrione”, ponendo al 14° giorno il passaggio alla condizione di “individuo biologico”, ma si è trattato di un compromesso che fotografava i rapporti di forza in seno alla Commissione stessa. Ci dovremmo ricordare di Einstein: “La natura non è divisa in dipartimenti come le università”.

 

Dal sito:

http://confini.blog.rainews.it/2017/03/03/il-fragile-e-il-prezioso-intervista-sulla-bioetica-a-luigi-alici/

 

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