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Il lavoro lo creano le politiche industriali

Lo scorso 12 marzo, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha presentato in una conferenza stampa, sinceramente innovativa per l’Italia, sia nel linguaggio che nelle immagini, le proposte del governo sull’economia e sul lavoro. Ha parlato di “cento giorni di lotta dura per cambiare” il Paese e trascinarlo fuori dalla crisi attraverso misure fiscali e riforme strutturali del mondo del lavoro, dell’economia e del welfare che, a suo dire, daranno all’Italia la spinta necessaria per ripartire.

Le misure fiscali, che entreranno in vigore a partire dal mese di maggio, prevedono un guadagno di 1.000 euro netti in busta paga per chi guadagna meno di 1.500 euro al mese. I destinatari sono una platea di 10milioni di lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 25mila euro all’anno e che vedranno un incremento del loro stipendio di circa 80 euro in più al mese. 

Per attuare questa prima misura serviranno 10miliardi all’anno e il premier ha espresso la volontà di reperirli sulla base dei risparmi di spesa e quindi senza aumento di tasse. Ad esempio dalla spending review che dovrebbe garantire un introito per il 2014 pari a 7miliardi, dall’ampliamento del deficit pubblico, portandolo al limite europeo del 3% contro la previsione attuale del 2,6% del Pil che dovrebbe garantire altri 6 miliardi, dai risparmi legati al calo dello spread. 

Sono previsti inoltre tagli ai costi della politica, alle pensioni oltre una certa soglia che saranno chiamate a contribuire insieme alle forze dell’ordine e alla Rai. Si risparmierà anche sugli stipendi dei dirigenti pubblici. Sul versante delle imprese Renzi ha annunciato invece una diminuzione del 10% dell’Irap per le aziende che verrà finanziato con l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26%, ad esclusione dei titoli di Stato, con un gettito previsto di 2,6 miliardi e lo sblocco di ulteriori pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione: 68 miliardi da liberare entro luglio. Ha inoltre parlato di un piano per scuole, di fondi per la tutela del territorio, di piano casa e della diminuzione del costo dell’energia per le piccole e medie imprese.

Per quanto riguarda il lavoro, invece, l’idea dell’esecutivo è quella di procedere con una riorganizzazione dell’intero sistema attraverso la semplificazione del contratto a termine (che durerà al massimo tre anni e sarà applicabile senza causale per un massimo del 20% sul totale dei lavoratori) e dell’apprendistato, cambiare gli ammortizzatori sociali introducendo l’assegno di disoccupazione, introdurre il reddito minimo e la tutela delle donne in maternità, modificando profondamente quanto previsto dalla riforma Fornero.

Molti di questi concetti sono stati ribaditi da Renzi anche nel suo intervento alla Camera dei Deputati il 19 marzo, alla vigilia del Consiglio europeo e adesso attendiamo che prendano corpo nel dettaglio e da annunci si trasformino in proposte concrete da discutere in Parlamento. 

Volendo esprimere un giudizio che non sia precostituito e dettato dalle logiche di appartenenza ma avendo come esclusivo obiettivo il bene dei cittadini, dobbiamo evidenziare come alcune delle misure annunciate non possono che essere viste con favore, mentre su altre è sicuramente necessario un approfondimento, avviare una discussione, un dibattito tra le varie forze politiche e sociali del Paese per giungere al miglior risultato. 

Capiamo benissimo le difficoltà che sta attraversando il nostro Paese, le abbiamo denunciate più volte, ce lo dicono tutti gli indicatori. Per ultimo in ordine temporale l’Ocse che qualche giorno fa ci ha consegnato un quadro sempre più drammatico sulle condizioni delle famiglie italiane che hanno perso circa 2.400 euro di reddito dal 2007 al 2012. Si tratta di una delle riduzioni in termini reali più significative nell’Eurozona dove in media la diminuzione nei redditi è pari a 1.100 euro. 

Il tasso di occupazione nel nostro Paese è al 55,5% (la quarta più bassa tra i 34 Paesi dell’Ocse mentre la disoccupazione è aumentata a ritmi vertiginosi, ad un tasso di 5.100 lavoratori per settimana e rappresenta più di quinto dell’aumento totale della disoccupazione nell’Eurozona. A farne le spese più degli altri sono sempre i giovani, diventati la fascia d’età con il tasso di povertà più elevato. Tra il 2007 e il 2010, il tasso di povertà tra i giovani (18-25 anni) in Italia è aumentato di tre punti percentuali, arrivando al 15,4%, e quello degli under 18 di 2 punti percentuali al 17,8%. La percentuale dei cosiddetti Neet, i giovani italiani disoccupati o inattivi che non sono né in educazione né in formazione, è aumentata di 5 punti tra il 2007 e il 2012, raggiungendo la soglia del 21,1%. Il terzo dato più elevato dopo la Turchia con il 26,7% e la Grecia al 27,3%. 

Sono numeri che raccontano le difficoltà quotidiane di milioni di persone costrette a pagare il prezzo più duro della crisi. Meno di 4 disoccupati su 10 ricevono un sussidio e l’Italia è la sola in Europa insieme alla Grecia a non avere un comprensivo sistema nazionale di sussidi a basso reddito. C’e’ quindi il rischio che le difficoltà economiche e le disuguaglianze diventino radicate nella società. Un Paese in cui il 10% più povero ha perso in media il 6% all’anno del proprio reddito, mentre il 10% più ricco ha perso solo l’1% è un Paese dove la disuguaglianza sociale la fa da padrona e dove a pagare sono sempre gli stessi: i giovani, i precari, i lavoratori, i pensionati.

Per questo accettiamo la sfida di Renzi e il suo richiamo alla novità e alla volontà, tutta da verificare, di voler cambiare il Paese. Noi vogliamo fare i conti con questa novità, perché noi più di Renzi vogliamo cambiare e migliorare questo Paese e vogliamo confrontarci con lui nel merito e giudicare questo Governo per quello che sarà in grado di fare a partire dal lavoro, dalla giustizia sociale, dalla necessità di rilanciare gli investimenti pubblici e privati, dall’occupazione, dalla politica industriale che intenderà mettere in atto. E ci sforzeremo di contribuire al dibattito che si è aperto nel Paese avanzando proposte concrete e misurando ogni provvedimento che ci verrà sottoposto con l’unico metro che conosciamo e cioè quanto e se sia utile a migliorare le condizioni di vita delle persone. 

Quindi bene fa il governo ad intervenire sull’Irpef provando, per la prima volta negli ultimi 20 anni a dare qualcosa in più in busta paga ai lavoratori ma allo stesso tempo diciamo che non si può non tenere conto del disagio in cui vivono milioni di pensionati, di partite iva e di disoccupati. Come giudichiamo positivamente l’allargamento degli ammortizzatori sociali ai lavoratori con contratto a progetto ma crediamo che le protezioni debbano riguardare anche gli altri lavoratori atipici, che sono un numero rilevante e per i quali devono essere previste politiche attive per rientrare nel mercato del lavoro. 

Non ci convince affatto l’annuncio di Cottarelli e ci dichiariamo nettamente contrari agli 85.000 esuberi nel pubblico impiego che rischiano di produrre una grande preoccupazione ai lavoratori e alle loro famiglie e quindi un nuovo blocco dell’economia del paese. E per questo proponiamo a Renzi, insieme alle misure sull’Irpef o sull’Irap, di mettere in atto politiche di sviluppo che creino nuova occupazione e attraggano investimenti. Noi di Sinistra Ecologia Libertà abbiamo presentato un “Green new deal” in grado di creare un milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni con un investimento pubblico di circa 17 miliardi da concentrare nel risanamento delle scuole, nella messa in sicurezza degli edifici pubblici e nella manutenzione del territorio contro il dissesto idrogeologico. Misure che permettono di dare ossigeno all’economia e allo stesso tempo produrre effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. 

Chiediamo allora al governo di confrontarci su questo. Di ragionare su quale politica industriale è necessaria per contrastare il processo di deindustrializzazione e desertificazione in atto nel nostro Paese, per provare a trovare una soluzione ai quasi 200 tavoli aperti al Ministero dello Sviluppo Economico, all’inarrestabile fenomeno delle delocalizzazioni (un esempio per tutti il caso della Electrolux dove finalmente il Governo si è impegnato a fare un provvedimento per reintrodurre la decontribuzione dei contratti di solidarietà che è un modo per ridurre il costo del lavoro senza abbassare il salario dei lavoratori), dei licenziamenti di massa, della politica delle svendite delle nostre migliori eccellenze con il solo intento di fare cassa, sacrificando qualsiasi ipotesi di rilancio del nostro patrimonio industriale come sta accadendo, per fare un altro esempio, con Finmeccanica dove il cda continua a ribadire la necessità di deconsolidare il settore dei trasporti come unica possibilità di rilancio del gruppo per concentrare tutte le attività nel settore dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza. 

Lo abbiamo detto più volte, dentro e fuori il Parlamento, noi non condividiamo l’idea di svendere aziende come Ansaldobreda e Ansaldo Sts, e giudichiamo grave che il ministro dell’economia Padoan e quello dello Sviluppo Economico Guidi abbiano dato il loro assenso a tale operazione, specialmente nel momento in cui Renzi alla Camera ha parlato di competitività industriale, di “rinascimento industriale europeo”, di inserire in un quadro unitario d’insieme competitività, energia, clima e occupazione. Esattamente l’opposto di quel che si vuol fare con Finmeccanica. Tra poco si rinnoveranno i vertici di Finmeccanica e ci piacerebbe sapere come intende procedere il governo. Se pensa di nominare dei semplici liquidatori non siamo per nulla interessati se, invece, si vuol provare a individuare manager e figure professionali in grado di rilanciare l’azienda, capaci di attrarre partnership internazionali e guadagnarsi fette di mercato in settori diversificati, dalla difesa al civile per tenere insieme il patrimonio industriale di questo Paese, sarebbe una scelta intelligente, che guarda al futuro e da noi condivisa. 

Ecco, su tutto questo incalzeremo il Presidente del Consiglio, affinché il Parlamento riacquisti la centralità che gli è dovuta nell’affrontare questi temi. Non vorremmo invece trovarci a discutere di misure volte a precarizzare ulteriormente il mercato del lavoro, come quelle sui contratti a termine che vedrebbero il rinnovo senza causale e fino a 8 volte in 36 mesi. 

Infatti, se una critica va fatta alle scelte che sin qui ha fatto il governo sul mercato del lavoro riguarda proprio la liberalizzazione dei contratti a termine che rischia di essere soltanto un modo per estendere la precarietà anziché contrastarla. Il decreto sul contratto a termine così come proposto dal governo, comporta il rischio che questo diventi l’unica forma di contratto utilizzato, permettendo alle aziende di assumere quando vogliono e senza alcun vincolo fino a 36 mesi. Il problema non è creare nuove forme di lavoro ma cancellare le tante forme di lavoro precario esistenti oggi come il Co.Co.Co., il lavoro a chiamata e le false partite Iva. 

Una seria riforma del mercato del lavoro deve essere centrata sull’esigenza di far ripartire gli investimenti pubblici e privati perché il tema all’ordine del giorno è l’assenza di lavoro che non si crea abbassando i livelli di tutela per i lavoratori (come è stato già sperimentato del resto con le riforme Sacconi e Fornero), ma creando i presupposti affinché aumenti l’offerta, sia attraverso interventi diretti dello Stato, sia favorendo ad esempio l’accesso al credito, che oggi rappresenta un problema vero per le piccole e medie imprese e per il sistema complessivo. 

Le banche che pur hanno ottenuto parecchi finanziamenti dalla banca centrale europea e a tassi molto bassi per ripianare i loro conti poi non favoriscono forme di credito sia per gli investimenti sia per far ripartire l’economia. Ecco, questo credo sia un tema che il governo deve saper affrontare prima che ci sia un’implosione sociale e venga messa a rischio la tenuta democratica di questo Paese. 

Ulteriori limiti che avvertiamo sono quelli legati alle risorse che saranno necessarie per finanziare le misure annunciate dal governo che non possono essere reperite tagliando ulteriormente la sanità, le pensioni o la spesa sociale. Quei settori hanno già pagato tanto e troppo negli anni della crisi e a loro non abbiamo più nulla da chiedere.

Esattamente tra due mesi si voterà per le elezioni europee e avvertiamo tutta l’importanza di questo appuntamento elettorale per provare a mettere in campo idee, programmi e candidature adeguate in grado di contrastare le  politiche economiche e sociali che una delle peggiori classi dirigenti europee ci ha imposto. 

Il tentativo sarà quello di ricostruire sulle macerie delle politiche di austerity là dove esse sono risultate più cruenti, partendo dal bisogno di dare al cambiamento e all’alternativa necessaria una prospettiva che altro non può essere se non di governo. La sfida è il governo dell’Europa, non la pur nobile testimonianza di una sinistra che vorrebbe ma non può. Sfida e ricambio: delle classi dirigenti, delle politiche di puro rigore, delle decisioni assunte (vedi il fiscal compact). 

E’ su questo snodo che si viene a collocare la sfida per un’altra idea di Europa, un’Europa sociale che non sia solo legata all’euro, che apra una discussione che riguardi il superamento del pareggio del bilancio, che discuta di un cambio di ruolo della Bce. Questo dibattito in Italia si può sviluppare sia alla luce delle elezioni europee che rispetto al ruolo che potrà giocare il nostro Paese come presidente di turno dell’Unione europea. 

Andare quindi in Europa per cambiare le regole e i vincoli. Non mettere in discussione il Fiscal compact per l’Italia significa  mettere in atto per i prossimi anni manovre da 50 mld all’anno di tagli. Cosa sicuramente impossibile e che renderà ininfluente qualsiasi tentativo di riforma strutturale che, seppur buona nelle intenzioni, non troverebbe alcun margine concreto di realizzazione.

 

24 marzo 2014

 

  (*) Deputato e coordinatore nazione di Sinistra Ecologia Libertà

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