Ho sempre giudicato molto criticamente l’esercizio, purtroppo molto diffuso tra i meridionalisti, di pesare la centralità della questione del Sud in documenti, relazioni, programmi , misurando scrupolosamente le parole e contando le volte in cui al tema si fa esplicito riferimento. Si tratta, a ben vedere, di un atteggiamento ambivalente: infatti si tende a ricercare – e a rivendicare – una specificità, sostenendo il pericolo di una separatezza.
Forte di questa convinzione ho vissuto “laicamente” il fatto che quest’anno nella relazione del Governatore della Banca d’Italia non c’è il consueto paragrafo sul Mezzogiorno.
Il Mezzogiorno viene menzionato solo per il più alto tasso di disoccupazione giovanile e quando si afferma la necessità di promuovere gli investimenti produttivi “in tutte le regioni del Paese, in particolare nel Mezzogiorno, dove soprattutto è critico il contesto esterno all’attività produttiva e da cui dipende in modo decisivo lo sviluppo equilibrato della nostra economia “.
I due giudizi contenuti in questo passaggio sono molto importanti, ancorchè tradizionali e consolidati nel dibattito sul Sud: la rilevanza del contesto esterno ( di infrastrutture, ma anche di tenuta e densità istituzionale); il fatto che il Mezzogiorno costituisce un problema per l’intero sistema economico nazionale.
Come giudicare questa scarsità di riferimenti al Sud? Certo viene in mente l’importante scossa che hanno dato al tema le Considerazioni del Governatore della Banca d’Italia nel 2009. Draghi da una parte denunciò l’ “allarmante scarto di qualità tra Centro Nord e Mezzogiorno nella istruzione, nella giustizia civile, nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel trasporto locale, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione idrica;” dall’altra richiamò l’attenzione sulla marginale rilevanza delle risorse “aggiuntive” per il Mezzogiorno ( il 5 %) rispetto al totale dei trasferimenti verso le Regioni meridionali. Draghi affrontò con forza la centralità della questione del capitale sociale, su cui poi si sarebbe sviluppato un forte e non sempre unanime dibattito.
Forse in qualche passaggio sarebbe stato utile richiamare la questione del Sud: soprattutto nella giusta analisi sulla natura della crisi che in Italia ha sommato aspetti propri della congiuntura internazionale ai profondi e tradizionali vincoli strutturali, tra i quali è importante riconoscere il dualismo del nostro sistema.
Come pure sarebbe stato forse utile un richiamo al fatto che la crisi, proprio per la sua vastità ed acutezza, determina situazioni di disagio sociale e di povertà non equamente distribuite a livello territoriale.
Ma forse questo non avrebbe modificato la sostanza dell’impostazione. E’ lecito tuttavia porsi un interrogativo. La non sottolineatura dell’innegabile maggiore virulenza degli effetti della crisi al Sud, si deve ad una valutazione relativa al fatto che la vastità della crisi stessa suggerisce la irrilevanza di misurarne e specificarne le conseguenze a livello territoriale, o alla scelta di considerare inutile ribadire una centralità ed una priorità dell’antica questione ritenendo il dato ormai acquisito?
Io, pur con qualche esitazione, propendo per la seconda ipotesi, forse stanco di accontentarmi di giudizi, denunce, programmi e promesse; come pure di richiami a cavallo tra l’etica e la politica.
Resto infatti convinto che se qualche novità ci potrà essere, se qualche percorso innovativo potrà avviarsi, dipenderà dalla capacità dei meridionali di affermare una vera discontinuità nell’analisi, nella proposta, nei comportamenti. Nell’abbandonare la cultura del divario come base culturale e politica, nel riconoscere la centralità della questione sociale, nel percepire che non vi è spazio, oggi come 60 anni fa, per uno sviluppo importato che prescinda o che rimandi a “dopo” il coinvolgimento e la promozione delle responsabilità locali.
Non si tratta di inseguire dimensioni autarchiche o di contrapposizione competitiva ( basta e avanza la cultura leghista). Si tratta di capire – e di comportarsi di conseguenza – che c’è una profonda differenza tra la crescita , che è fatta di quantità, e lo sviluppo , che fatto di qualità, di relazioni, di comunità.
Questo percorso sarà lungo, ma più solido degli stop and go alimentati da promesse di eventi, di svolte, di programmi risolutivi.
Se vivremo in questa dimensione la nostra battaglia, saremo attenti, ma meno sensibili e dipendenti dalle riflessioni e dagli orientamenti del “centro”.
(*) Presidente della Fondazione CON IL SUD