Col consiglio di amministrazione di Fiat-Chrysler che si terrà a Torino il 29 gennaio ha ufficialmente inizio la storia di quello che rappresenta oggi il settimo gruppo dell’industria automobilistica mondiale. Quale futuro lo attende? E quali saranno le ripercussioni sull’assetto produttivo dell’Italia?
Cominciamo dallo scenario che caratterizza attualmente il sistema dell’auto. Prima della grande crisi del 2008-09, c’era stato un secolo di incontrastata egemonia industriale degli Stati Uniti. Prima la Ford, sotto la guida autocratica ma geniale del suo fondatore Henry, poi – più a lungo – la General Motors hanno dominato il mercato internazionale dell’auto. Oggi nessun produttore detiene il primato con analoga sicurezza. Adesso, in testa c’è la Toyota, forte di un successo riconquistato, che le assicura una redditività strepitosa e una formidabile capacità d’investimento. Alle sue spalle, ci sono la recuperata General Motors, che non ha cessato di essere un colosso, e la Volkswagen, che non fa mistero di nutrire, a propria volta, grandi ambizioni. Addirittura, qualche tempo fa, ha ammesso di mirare al primato assoluto entro questo decennio.
Alle spalle dei primi tre si muovono soggetti importanti, gruppi consolidati, come la Ford. Ma soprattutto emergenti come i coreani di Hyundai-Kia, artefici di un’ascesa sorprendente, specie sul mercato Usa. E come Renault-Nissan, un binomio che ha scartato la soluzione della fusione integrale. E naturalmente come Fiat-Chrysler, che sta anch’essa in questo nucleo, dove il gruppo più in difficoltà è costituito in questo momento da Peugeot, salvata dall’intervento dello stato francese e del gruppo automobilistico cinese Dongfeng, la principale impresa cinese nel settore auto, che grazie alla partecipazione francese conta di crearsi un primo caposaldo al di fuori dei confini nazionali.
Questo scenario è caratterizzato da una concorrenza estremamente accesa, che si gioca tanto sui mercati storici (America del Nord, Europa), quanto su quelli nuovi (Cina e America Latina), e che richiede la capacità di elaborare delle strategie a misura delle varie aree continentali.
Per questo la domanda su dove sarà il quartier generale di Fiat-Chrysler va qualificata meglio. Se ci si riferisce al fatto che Auburn Hills, sede di Chrysler, è già ora una sede strategica dominante, si dice una ovvietà. Allo stesso modo, è evidente che il nuovo gruppo dovrà essere quotato a Wall Street. Ma Fiat-Chrysler non può avere una sola testa pensante: il mercato americano si presidia da Detroit, così come quello europeo si controlla meglio da Torino. Del resto, in Brasile la Fiat locale si muove già con l’autonomia necessaria. E presto, se il gruppo vuol essere realmente globale, dovrà riuscire a diventare più presente sul mercato cinese.
A questo domanda si lega l’altro interrogativo: fino a che punto Fiat-Chrysler sarà ancora italiana? O invece, di fatto, con la fusione si sta creando un gruppo nordamericano?
In questi ultimi anni, la produzione automobilistica ha fatto molti passi indietro nel nostro paese, dove il mercato interno è crollato. Quando si sarà stilato il consuntivo del 2013, si potrà constatare che le auto fabbricate in Italia (nettamente al di sotto delle 400 mila nel 2013) sono molto poche rispetto a quelle che si producono, non diciamo in Germania o in Francia, ma nel Regno Unito o in Spagna, che pure non vantano produttori nazionali. Quale sarà la tendenza in avvenire?
L’operazione principale che ha fatto la Fiat da noi l’anno scorso è stata l’attivazione dello stabilimento di Grugliasco per la produzione delle nuove Maserati. Un marchio di lusso, dunque, che però ha cominciato a rivelare il proprio potenziale, conoscendo un’ottima crescita degli ordini nel corso del 2013. Ora occorre che nella sua scia si attui il rilancio del marchio Alfa Romeo, largamente sottodimensionato. Si tratta perciò di innalzare la qualità e la gamma della produzione automobilistica che si realizza in Italia, facendo leva sui marchi e sull’immagine di qualità che essi riflettono. Il banco di prova fondamentale è costituito proprio dalla possibilità di rilanciare il brand Alfa Romeo, proponendo vetture che riscuotano consenso a livello internazionale, in un segmento di mercato oggi dominato da produttori di grande efficacia come Audi e Bmw.
A questo scopo, per avere successo, è necessario che le nuove Alfa, fabbricate in Italia ma destinate ai mercati di tutto il mondo, si dotino di un elemento di vantaggio competitivo. Che non può essere costituito né dalla tradizione del marchio né dal design italiano. Correttamente Sergio Marchionne ha sostenuto che non si possono più montare motori Fiat sulle carrozzerie Alfa. Queste vetture devono avere un propulsore realizzato all’interno del pool Maserati-Alfa, con caratteristiche di maggiore brillantezza e vivacità rispetto ai prodotti col marchio Fiat. Magari qualcosa che possa, pur alla lontana, evocare l’esperienza e la qualità Ferrari.
Le fabbriche italiane della Fiat andranno perciò riorganizzate e adattate alle lavorazioni di prodotti a più elevata qualità e valore aggiunto, come è già previsto per Melfi e per Mirafiori. D’altronde, quel che resta in piedi della migliore industria manifatturiera italiana appare contraddistinto dalla vocazione crescente a esportare prodotti raffinati, che incorporano più tecnologia, design, conoscenza.
Questo rappresenta un passaggio decisivo sia per il successo della strategia di riposizionamento seguita da Fiat-Chrysler, ma sia ancor di più per far sì che il nostro paese conservi un futuro industriale nell’automobile.
Pare che sarà ancora Marchionne a guidare nei prossimi anni il gruppo industriale che ha costruito nel decennio in cui è stato alla testa della Fiat. Ricordiamo che è arrivato a Torino alla metà del 2004, quando la Fiat stava vivendo la fase più drammatica della sua crisi. Alla testa del gruppo non c’era più un Agnelli, dopo la morte di Umberto. La guida manageriale era instabile, perché in due anni si erano succeduti tre amministratori delegati. Insomma, da un lato la Fiat era ormai lontana da ciò che era stata quando l’Avvocato era vivo; dall’altro, aveva perso un profilo preciso e rischiava di subire uno smembramento da parte delle maggiori banche creditrici.
Marchionne giunse quindi nel momento peggiore, ma forte di due elementi che lo distinguevano: l’estraneità pressoché totale all’ambiente economico italiano e alla stessa Fiat (era entrato da poco nel consiglio di amministrazione, senza aver mai incontrato Gianni Agnelli) e una capacità sperimentata a livello internazionale come ristrutturatore di aziende. Grazie a questi due punti di forza, da principio condusse una rapida trasformazione interna della Fiat. Sburocratizzò la sua struttura, imprimendo una sferzata alla compagine manageriale, rapidamente decimata. Diede al gruppo obiettivi realistici, che potevano e dovevano essere conseguiti. Così all’inizio ottenne un largo consenso, anche dall’insieme del mondo sindacale.
Il consenso si è incrinato invece quando è incominciata l’avventura dell’alleanza con la Chrysler (un traguardo già perseguito dalla Fiat in passato, ma poi abbandonato per i suoi troppi rischi). La crisi esplosa nell’autunno 2008 indurrà Marchionne a bruciare le tappe, ritenendo che la Fiat possa salvarsi soltanto con una proiezione globale. Sarà il motivo che lo spingerà a scommettere sulla Chrysler, nel cui rilancio nessuno credeva.
La svolta nelle relazioni industriali e il conflitto giudiziario con la Fiom, che ha tenuto banco negli ultimi anni, ha avuto origine da qui, dall’intento di creare un nuovo sistema aziendale perfettamente in linea con la globalizzazione. Anche e soprattutto dal punto di vista sindacale. Ciò ha determinato lo strappo radicale e definitivo col sistema italiano, come testimonia la rottura con Confindustria. Era la premessa per l’avvio della stagione globale che ha trovato adesso la sua piena configurazione e i cui risultati dovranno essere giudicati nei prossimi anni.
(*) Docente Associato all’Università Bocconi – Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico