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La manovra finanziaria, una coperta troppo corta

Espansiva, neutra o restrittiva? Gli economisti si sbizzarriscono nel giudicare la manovra. Il governo la giudica, moderatamente, espansiva, Cottarelli la vede neutra, Piga sul Messaggero la giudica restrittiva. Il tutto si gioca su come considerare il rapporto tra deficit tendenziale e programmatico, al netto o al lordo della clausola di salvaguardia. Se si confronta il deficit tendenziale dell’1,3% con quello programmatico del 2,2%, si può giudicare la manovra espansiva; se si confronta il deficit previsto per il 2020 con quello del 2019, in entrambi i casi pari al 2,2%, la manovra appare neutra; se partiamo da un deficit tendenziale senza disattivazione della clausola, passiamo dal 2,7% al 2,2% programmatico e quindi la manovra è regressiva.

In concreto, se leggiamo i numeri scritti nel Documento programmatico di bilancio (DPB), è difficile giudicare la manovra espansiva. Tolti i 23 mld usati per evitare l’aumento dell’Iva, le risorse immesse nell’economia italiana sono pari a 7 mld, mentre le coperture previste per mantenere il deficit al 2,2% sono pari a 12,6 mld. Certo si può ragionare sui “moltiplicatori” del taglio al cuneo fiscale da un lato e delle entrate derivanti dalla lotta all’evasione, tuttavia le cifre sono quelle indicate.

 

Si poteva fare di più? Molti critici hanno sottolineato come il governo abbia rinunciato a imprimere una svolta decisa all’economia italiana, bisognosa di una cura shock per uscire da una stagnazione ormai lunga. Critica sulla carta valida, ma è difficile pensare che questo governo fosse in grado di imprimere questa svolta, stretto com’è tra i vincoli comunitari, i limiti di un programma concordato in fretta e furia sotto la minaccia di uno scioglimento delle Camere, il poco tempo a disposizione per varare la manovra e la debolezza dei partiti che lo sostengono.

Conte e Gualtieri hanno fatto quello che era possibile fare, limitandosi a contenere i danni con un occhio soprattutto allo spread. Se poi consideriamo che la manovra è stata approvata “salvo intese”, espressione da cambiare in “senza intese” viste le polemiche successive, pensare che fosse possibile fare di più è pura fantasia.

Che questo poi sia insufficiente rispetto alla necessità di imprimere una svolta all’economia italiana è certamente vero ma è altro.

 

E’ indubbiamente positivo che sia stato sterilizzato l’aumento dell’Iva che se attuato avrebbe avuto un effetto certamente negativo sull’economia. Restano tuttavia, sia pure ridotte, le clausole per il 2021 e il 2022. Anche la prossima legge di bilancio dovrà, quindi, partire con una clausola di 18 miliardi da affrontare, fatto che limiterà le possibilità di manovra. Urge eliminare alla radice queste clausole per riacquistare una maggiore libertà di manovra, ma per farlo occorrono provvedimenti di tagli di spese o di maggiori entrate strutturali.

Si è molto discusso sui possibili interventi sulle aliquote Iva. Vi sono tante buone ragioni per modificare le attuali aliquote a partire dal fatto che la loro differenziazione favorisce l’evasione nelle singole filiere produttive. Tuttavia ha un senso modificarle se questo produce un maggior gettito e questo era politicamente difficile, se non impossibile per un governo nato anche con l’impegno di sterilizzare l’aumento dell’Iva. Sarà necessario riprendere il tema nel corso del prossimo anno.

 

Uno dei cardini della manovra è la lotta all’evasione fiscale. Rispetto a quanto indicato nella NADEF, più di 7 mld, le maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione si sono ridotte nel DPB a una cifra più che dimezzata, 3,3 mld, ma anche più credibile. 

Conte, con l’appoggio del Pd, si è intestato la parte concernente la lotta all’evasione. Azione lodevole senza dubbio, da guardare tuttavia con qualche scetticismo se consideriamo che di lotta all’evasione si “parla” da almeno 45 anni e che nonostante questo si stima che siano almeno 100 i mld che ancora oggi sfuggono al fisco.

Scetticismo che cresce alla luce delle polemiche e delle resistenze sorte sulle soglie del contante e sulle multe per il mancato uso dei pos. Da notare, inoltre, che la prima di queste misure non è quantificata nel DPB e che la seconda “vale” 4,5 milioni di maggiori entrate. Lo scontro cioè non è su misure quantitativamente rilevanti, ma su misure che hanno o possono avere un forte impatto d’immagine.  

Colpiscono poi le dichiarazioni del capo politico del partito di maggioranza relativa che afferma di non voler fare la guerra ai commercianti e agli artigiani, mentre invoca il carcere per gli evasori. Nel suo stesso Movimento qualcuno gli ha ricordato che non esistono piccoli e grandi evasori, ma solo evasori. Tutti noi, credo, conosciamo parenti, amici, conoscenti che in quanto artigiani, commercianti, liberi professionisti evadono tranquillamente le tasse e altrettanto tranquillamente godono dei servizi sociali, magari quelli soggetti alla prova dei mezzi, finanziati da chi paga le tasse e spesso ne resta escluso per la prova dei mezzi. Se si parte dal principio indicato da Di Maio, si può tranquillamente accantonare buona parte della lotta all’evasione. 

Obbligo del pos e limiti al contante, possono essere elementi utili per la tracciabilità dei pagamenti ma presi a sé non sono determinanti per la lotta all’evasione se non accompagnati da un utilizzo massiccio delle banche dati senza i limiti ancora frapposti in nome della privacy. Manca ancora il testo del decreto fiscale, in assenza di misure su questi punti le norme su pos e limiti del contante corrono il rischio di essere solo delle “grida” senza particolare efficacia.

 

Come ci si aspettava, è arrivata la “lettera“ della Commissione Europea, lettera “gentile” che non critica ma chiede chiarimenti. In effetti, i numeri del DPB non sono in linea con le regole europee, non vi è la correzione richiesta del deficit strutturale, ma appare più un avvertimento bonario che questo è il massimo che la Commissione e l’Ecofin possono concedere. E questo credo sia noto a tutti nella maggioranza di governo, dato che nessuno mette in discussione i numeri complessivi della manovra. Certo un’eliminazione di quota cento metterebbe a disposizione nuove risorse, ma è politicamente irrealizzabile e comunque potrebbe produrre esodati, mentre interventi limitanti, tipo finestre, darebbero poche risorse.

 

Tra le misure espansive vi è il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti. Le risorse a disposizione sono limitate (3,2 mld nel 2020, 5 mld nel 2021) lontane da quelle indicate da un documento del PD (15 mld, Tavolo programmatico PD – Lavoro e welfare del 25 agosto 2019).

Non è ancora chiaro come e a chi saranno distribuiti. La logica appare, comunque, quella del Bonus Renzi, assicurare a una parte dei lavoratori dipendenti un aumento netto in busta paga. Secondo uno studio della Banca d’Italia (2017) il bonus Renzi ha avuto un effetto positivo sui consumi e anche questo taglio del cuneo probabilmente lo avrà sia pure di dimensioni inferiori dato il minor importo. E’ una misura appoggiata dal sindacato, che trova la sua ragion d’essere nella forte differenza tra costo del lavoro e retribuzione netta e dal fatto che l’Irpef pesa oggi soprattutto sui lavoratori dipendenti (e i pensionati). Tuttavia, come il bonus Renzi, è un provvedimento che aggiunge un nuovo tassello alla continua demolizione dell’Irpef e che esclude dai benefici i pensionati, l’altra categoria di contribuenti maggiormente soggetta all’Irpef. In un sistema fiscale che, come dice V. Visco, “si è trasformato nel luogo della assoluta discrezionalità se non dell’abuso vero e proprio, e la sua stessa esistenza sembra essere diventata il pretesto per l’introduzione di deroghe e trattamenti speciali ed estemporanei” anche una parte dei lavoratori dipendenti ha ottenuto il suo trattamento speciale.

 

L’Irpef nata come imposta generale sui redditi e fortemente progressiva, fin dall’inizio ha visto esclusi dalla sua base imponibile i redditi di capitale, mentre altri redditi erano e sono calcolati in via presuntiva. Col passare degli anni i redditi non considerati nella base imponibile sono aumentati, cosicché oggi l’Irpef è in buona parte un’imposta sui soli redditi da lavoro e da pensione. Nello stesso arco di tempo la progressività sugli alti redditi è fortemente diminuita (l’aliquota massima è scesa dal 72 al 43%), mentre è invece aumentata per i redditi medi e medio-bassi con aliquote marginali che oggi superano il 41% tra i 28.000 e i 55.000 euro di reddito.

Il ministro Gualtieri in Commissione bilancio ha affermato che “si avvierà nell’orizzonte triennale del Governo … un cantiere di più generale revisione delle norme fiscali, a partire dall’Irpef”. Non solo quindi una riforma dell’Irpef ma una più generale revisione del nostro sistema fiscale. E, in effetti, una profonda modifica dell’Irpef che non si limiti a ritocchi di aliquote e scaglioni è possibile solo in un quadro di modifica complessiva del sistema fiscale.

Bene allora una riforma complessiva che parta però dalla realtà di un paese che non ha nella sua vocazione quella di pagare le tasse e che non ha, almeno fino ad oggi, gli strumenti e la volontà per farle pagare a tutti. Altrimenti il peso di queste continuerà a ricadere solo su chi ha il sostituto d’imposta.

Quello dell’equità del prelievo e della lotta all’evasione è un elemento decisivo anche per gli interventi su prestazioni di welfare legati al reddito familiare o individuali. Zanardi nell’audizione per conto dell’Ufficio parlamentare di bilancio in merito alla discussione sull’assegno unico per i figli da introdurre al posto degli Attuali assegni familiari riservati ai soli lavoratori dipendenti (pagati con i contributi delle imprese) afferma che “con il nuovo regime si garantirebbero benefici particolarmente elevati ai lavoratori autonomi che attualmente non ricevono gli assegni al nucleo familiare. …. Il superamento della categorialità dei benefici se, da un lato, risponde a un principio di equità, pone alcuni problemi riguardo alla opportunità di utilizzare un indicatore affetto da distorsioni quale il reddito ai fini Irpef per graduare il beneficio, data anche la maggiore propensione dei lavoratori autonomi a occultare parte del proprio reddito”.

Ecco, il reddito è un indicatore affetto da “distorsioni” sia per graduare i benefici dello stato sociale sia per tassare le persone. Non si tratta di mettere in soffitta l’Irpef e di passare a una prevalenza d’imposte reali, ma forse, partendo dalla realtà e non dalla teoria, ripensare a un loro riequilibrio e comunque evitare che la progressività ricada solo su alcuni redditi.

Il pericolo altrimenti è che l’idea della flat tax prenda piede, così come prenda piede l’idea che chi è escluso dai benefici sociali per la prova dei mezzi chieda di fare da sé attraverso una diminuzione del carico fiscale, ma questa sarebbe la fine di un modello di welfare.

 

 

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