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Le diverse sfide di Trump. Intervista a Andrea Molle* 

Con iĺ politologo della Chapman Università, di Orange (California-Usa), analizziamo le prossime sfide del neoeletto presidente USA.

 Molle, queste elezioni Usa hanno segnato una autentica valanga pro-Trump. Si trova a governare da una posizione ancora più forte rispetto al primo mandato. L’impressione che si ha che sarà un secondo mandato più radicale, forte del consenso ottenuto, rispetto al primo. Come la vedi? Nella telefonata con Harris, Trump si è detto d’accordo di lavorare per unire il Paese. Ci riuscirà?

L’esito della competizione elettorale, in gran parte prevedibile, ha però visto Trump prevalere su tutti i fronti. Non solo ha superato di gran lunga la soglia dei 270 grandi elettori necessari, ma ha anche ottenuto una solida maggioranza nel voto popolare e il controllo di entrambi i rami del Congresso. Una vittoria netta e indiscutibile. Il voto si è rivelato, in modo paradossale, più intersezionale di quanto sostenuto dai fautori dell’intersezionalità: Trump ha raccolto ampi consensi tra diversi gruppi demografici tipicamente democratici, con l’unica eccezione delle donne di colore, e ha registrato incrementi significativi, soprattutto tra gli elettori ispanici. Questo successo tra le cosiddette minoranze avrà, secondo me, un impatto sullo stile del secondo mandato di Trump, che non potrà ignorare le istanze di un elettorato molto più variegato rispetto a quello che lo aveva portato alla Casa Bianca nel 2016. Il segnale espresso dal popolo americano appare quindi chiaro: basta con le politiche identitarie basate su razza e genere che rispondono agli interessi di piccole minoranze e maggiore attenzione ai veri problemi del Paese. Un messaggio evidente agli studiosi di tendenze elettorali, che però il Partito Democratico ha scelto di trascurare. In questa prospettiva, è possibile che, al di là delle frasi di circostanza, Trump cerchi davvero di unificare l’America in tempi così difficili. Tuttavia, è ancora presto per capire se il secondo mandato di Trump sarà più moderato o più radicale rispetto al precedente.

Nello staff di Kamala Harris ovviamente c’è grande delusione e c’è stata, anche, una dichiarazione molto dura nei confronti deĺ Presidente uscente BIDEN (“ha una responsabilità grave “). Ti chiedo dove è finito il “muro” di difesa (fatto di ĝiovani, ĺatinos, donne, afroamericani)? Perché non ha retto?

La delusione è del tutto comprensibile, anche perché l’elettorato democratico ha vissuto queste elezioni in una sorta di bolla mediatica, alimentata da endorsement di celebrità e da sondaggi favorevoli alla candidata Kamala Harris. Il risveglio alla realtà è sempre durissimo. Ma le reazioni che ora attribuiscono la sconfitta alle tempistiche del ritiro del presidente Biden, un percorso deciso dal partito stesso, o al presunto razzismo e patriarcalismo dell’elettorato, sono il sintomo della crisi che ha portato il Partito Democratico a questo esito: mancanza di leadership e tendenza a incolpare cause esterne per i propri fallimenti. L’analisi dettagliata del voto, tuttora in corso, evidenzia già come la distribuzione demografica del sostegno repubblicano smentisca ogni interpretazione che tenta di deresponsabilizzare la dirigenza del partito o di attribuire il successo di Trump esclusivamente a fattori identitari. Il “muro” non ha retto perché, in questa tornata elettorale, non esisteva realmente: il Partito Repubblicano lo aveva capito da tempo e ha semplicemente saputo cogliere meglio le esigenze trasversali e il disagio diffuso dell’elettorato.

Qual è stato l’errore di Kamaĺa Harris?

Con una battuta direi che il primo errore è stata proprio la scelta di Kamala Harris: una candidata con scarso gradimento, impreparata a gestire una campagna in salita e incapace di valorizzare i risultati positivi dell’amministrazione Biden in ambito economico. Il secondo errore è stato dare per scontato che il ricambio generazionale e la crescente diversità nella classe media si sarebbero tradotti automaticamente in maggior sostegno per l’ala sinistra del partito. Inoltre, l’enfasi su questioni di nicchia, come le battaglie sul genere, e le scarse prestazioni nella governance locale, dove il Partito Democratico non è riuscito a distinguere l’azione pratica sul territorio dalle grandi battaglie sociali, ignorando o persino aggravando i problemi reali delle comunità locali, ha rappresentato un altro limite. Infine, l’abbraccio dato a posizioni estremiste che ha dato l’impressione che il partito tollerasse atteggiamenti antisemiti, antioccidentali e persino antiamericani. Come si può chiedere un voto per “salvare l’America” quando si strizza l’occhio a chi inneggia a “morte all’America”?

Come si comporteranno i Democratici? Risponderanno con un atteggiamento radicale?

Spero sinceramente di no. La lezione principale di queste elezioni è che il Partito Democratico deve abbandonare il radicalismo ideologico e tornare a essere una forza popolare che si batte per gli interessi concreti degli americani. Temo, però, che la nuova generazione di dirigenti democratici possa invece convincersi che la soluzione sia spostarsi ancora più a sinistra. Se così fosse, sarebbe, a mio avviso, l’inizio della fine per il partito. Con Kamala Harris fuori dai giochi, la palla torna a Barak Obama e alla sua leadership. C’è da sperare, per i democratici, che l’ex-presidente riesca a riportare il partito su una strada più moderata.

Una cosa è certa, per j Democratici, dovranno ripensare ĺa ĺoro identità. È così?

Esattamente, ma per riuscirci è necessario prima fare una valutazione onesta e sincera della sconfitta elettorale. Senza un riconoscimento autentico dei problemi, non si potrà mai costruire un’alternativa realmente efficace.

Veniamo a Trump. Il suo programma economico è assai costoso. Come pensa di finanziarlo? con i dazi?

Dobbiamo tenere conto del fatto che Trump è piuttosto imprevedibile e tende a cambiare idea molto spesso. Sarà importante considerare anche il peso che la struttura del Partito Repubblicano avrà sulla sua presidenza nei primi due anni del mandato. Già durante la presidenza del 2016, la leadership repubblicana aveva espresso dubbi su alcune delle sue politiche, come la riforma della sanità. Credo che pochi nel partito desiderino avviare una guerra commerciale con l’Europa, anche se è plausibile un ritorno a forme moderate di protezionismo economico. Questo potrebbe essere motivato da vari fattori, inclusi aspetti di politica estera e di sicurezza nazionale.

In cosa si distinguerà maggiormente da Biden in politica estera?

Anche in questo caso, considererei l’imprevedibilità che caratterizza la sua personalità. Tuttavia, posso avanzare alcune previsioni sui dossier più rilevanti. Ritengo che ci sarà maggiore chiarezza nella posizione degli Stati Uniti riguardo alla crisi in Medio Oriente. L’amministrazione Biden, anche per ragioni elettorali, ha mostrato un atteggiamento altalenante sul conflitto tra Israele e Hamas, da un lato sostenendo Gerusalemme e dall’altro esprimendo frustrazione verso Netanyahu. Credo che Trump assumerà una posizione più decisa a favore di Israele, anche in sede ONU, e di aperto conflitto con l’Iran e i suoi proxies. Per certi versi sono anche ottimista. Non solo perché proprio a Trump dobbiamo gli Accordi di Abramo, e con essi l’inizio di un processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e il mondo arabo e di stabilizzazione dell’area, ma anche perché credo che sia giunto il momento di affrontare il dossier Iran (e annessi proxies) con decisione e risolutezza. Per quanto riguarda l’Ucraina, Trump non ha mai nascosto la sua frustrazione per il prolungarsi del conflitto e potrebbe non vedere motivi per continuare a sostenere lo sforzo bellico in Ucraina. Sembra orientato a cercare un accordo con Mosca, anche se ciò potrebbe andare a scapito della sicurezza europea. D’altra parte, non ha mai nascosto la convinzione che gli Stati Uniti non debbano combattere le battaglie dell’Europa. Tuttavia, non è da escludere che Trump possa anche decidere di assumere un atteggiamento più rigido nei confronti di Putin. 

Tutta l’internazionale sovranista ha esultato, che mondo sarà quello di Trump?

Difficile a dirsi. Probabilmente ci aspetta un mondo meno integrato, con un’America più isolazionista e un ritorno a equilibri multipolari, sostenuti da una politica di deterrenza e da un rinnovato realismo in politica estera, basato su una presenza militare attiva. Ma questo non tanto a causa di Trump, che considero più una conseguenza che una causa di questi cambiamenti, quanto per le trasformazioni radicali del mondo post-pandemico: la fine dell’era di supremazia americana, la crisi senza precedenti delle istituzioni internazionali basate sul diritto, la risorgenza di potenze regionali come la Russia e il crescente ruolo degli attori non statali ostili. A ciò si aggiunge il fatto che le nostre società stanno affrontando rapidi cambiamenti climatici e tecnologici, per i quali siamo ampiamente impreparati.

Ultima domanda: qual’ è la lezione che ci viene, come europei, da queste elezioni americane?

L’Europa deve comprendere che non può più contare su un supporto incondizionato da parte di Washington senza dare qualcosa in cambio. Non mi aspetto cambiamenti significativi nell’approccio di Trump verso la NATO e l’Unione Europea, che tende a vedere più come ostacoli che come risorse nelle relazioni transatlantiche. Alla fine, però, sono i paesi europei a dover decidere quale sarà il futuro del continente, non l’America. Inoltre, questo momento dovrebbe farci riflettere su un’opportunità cruciale: non importare una cultura neo-puritana americana ma liberarci finalmente dal pantano dell’antioccidentalismo.

*Politologo della Chapman Università, di Orange (California-Usa). 

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