L’IA “generativa”, (cioè neurale, stratificata, convolutiva e tras-formata) infatti accrocca chiacchiere formalmente assennate, per iscritto e all’occorrenza in voce, estraendole da un file di frasi fatte.
Anche gli umani – a dire il vero – producono parole a mezzo di parole e ne fanno talvolta una lucrosa professione. Ma per l’umano ogni parola è astrazione concettuale di percezioni fisiche (e frutto del corpo tutto intero e non solo dei rigiri del cervello) sicché “cavallo” non è, né mai sarà, una disposizione di sette lettere, ma il simbolo d’un animale che abbiamo visto, odorato, toccato, udito e, talvolta, masticato.
Chiusa nel suo mondo di automatismi sganciati dai sensi, la macchina alimenta il proprio repertorio espressivo a partire da testi umani (Wikipedia, i post di Facebook e compagnia) integrati dai segnali di qualche etichettatore e revisore. E dentro quello che trova si rigira, in una nuvola di calcoli talmente fitta e vasta da risultare, per i suoi stessi architetti, di fatto imperscrutabile.
Chi sta investendo miliardi su miliardi sulla IA come ultimo character del capitalismo tecno finanziario (”macchine che “concepiscono”, cioè mettono insieme a modo proprio quel che dicono) sarà sempre tentato di sperarle “intelligenti” per moltiplicarne gli acquirenti.
Non per nulla siamo inseguiti da vecchi servizi (ricerca, social, consigli per cucina) arricchiti da suffisso AI (a gara col green abbinato al petrolio) e da bollettini di esaltazione promozionale e di terrore che misurano quanto e in quali campi le AI generative siano prossime ad emulare – appieno – le umane prestazioni. Nonché a superarle in una superiore e iper estendibile Intelligenza Generale capace di sfuggire ai suoi Geppetti e farsi tutore del mondo con le buone o le cattive.
OpenAI e la crisi democratica
In mezzo a questa congerie di problemi strutturali e di clamori per lo più in favore di listini, OpenAI pensa che la sua GPT con centinaia di bilioni di parametri (che sono l’equivalente dei muscoli di un pugile) possa già proporsi d’affrontare la crisi della democrazia rappresentativa sperando di raccogliere l’interesse di investitori che abbiano profonde sia le tasche sia l’angoscia per un mondo sul ciglio del trumpismo.
La società di San Francisco ha lanciato, già prima dell’estate scorsa, un concorso con premi da 100.000 dollari per ognuno dei primi dieci classificati, volto a ricevere progetti di “sondaggi” gestiti dalla AI, confidando che questa: 1) abbia la parlantina per intervistare i cittadini in modo interattivo e più efficace rispetto alle scabre domandine degli attuali sondaggi telefonici; 2) possa farlo con centinaia di migliaia o milioni di persone e, tendenzialmente, con chiunque abbia un account in qualche social, costando vari ordini di grandezza in meno rispetto al medesimo lavoro fatto con i sondaggisti umani che hanno figli e mutuo da sfamare; 3) estrarre da quelle “conversazioni” ben di più delle ipotetiche scelte – voterai? hai votato? per chi? e (raramente e a casaccio) perché? per che cosa? – che il lunedì sera danno il là alla settimana nel telegiornale di La7.
Infatti, ogni parola risucchiata alle persone verrebbe ripassata nel deep learning (l’apprendimento profondo con cui le macchine classificano l’input massiccio e permanente dei loro nutritori) sperando che l’abbondanza dei dati soverchi i timori di sentenze allucinate e imperscrutabili, e che dal tutto vengano fuori (a prezzo contenuto) fiumi carsici di interessi, valori e passioni, tanto profondi quanto inesplorati , stimolanti per politici, analisti sociali e giornalisti pronti sia a rieducare sé medesimi che a fornire autoproiezione a comunità popolari di interesse e sentimento, finora senza nome. Il tutto per prospettare alle istituzioni democratiche ancoraggi meno effimeri del gioco in contrapposizione degli uni contro gli altri.
“Adelante con juicio”
L’idea di OpenAI, ci chiediamo, è in sé interessante o si tratta di una delle tante seduzioni lanciate a beneficio dell’avido ceto medio del listino? La memoria di metaverso, web3 e monetazione libera e criptata ci indurrebbe a pensare il peggio. In più, dobbiamo fare i conti con la diffidenza di principio per chiunque proponga marchingegni tecnici atti a spianare problematiche politiche, sociali e culturali.
Ma benché questi metodi, a la Casaleggio, ci suscitino ancora un’ira furibonda, non possiamo non condividere il presupposto che la democrazia rappresentativa corra il rischio, anzi sia già vittima, di un sempre più largo buco cognitivo. E’ vero infatti, come si ricorda su Time, che le istituzioni democratiche sono rimaste quelle d’una volta (una testa e un voto assegnato ad un partito) mentre le mappe sociali di Ottocento e Novecento si sono sciolte in molecole gassose, agitate da pulsioni ed energie non stipabili in periodiche croci su una scheda.
Da qui l’irrompere delle “non sintesi” convergenti in negativo, sotto forma di rabbia, allucinazioni (le scie chimiche, i complotti e compagnia), astensioni. E la polarizzazione strutturale e umorale di elettori incapaci di dirsi cosa sono che pensano d’aver la vista acuta solo perché distinguono che la Politica attuale è per lo più spettacolo delle combriccole del nulla contro i popoli del vuoto, dei valori e della cassa.
Insomma, sepolta l’ubbia del Messia meccanico che spiazza la politica, l’idea di OpenAI parla di uno strumento di ricerca e di lavoro tutto da provare, se mai spunteranno dalle Borse i soldi per avviarlo o, se in alternativa indipendente dal mercato, le Università, i Governi e i Partiti racimoleranno gli spiccioli per creare applicazioni capaci di girare su qualche IA gigante sottostante (GPT o altro di certo non ne mancano) e di volgersi al mondo vicino e lontano in cerca di risposte dal sicuro ritorno politico e culturale. A patto, ovviamente, di saper porre le domande. E di essere consapevoli che l’AI talvolta è un servo pazzo. cui maggiormente occorre la saggezza del padrone. In sintesi: “Adelante, Pedro, con judicio”
*da Domani 23/02/2024