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Europeisti, senza se e senza ma

La Dichiarazione firmata il 26 marzo scorso dai 27 Capi di Stato o di Governo non è quel velo pietoso che molti avrebbero auspicato per confermarsi nella convinzione che l’Europa, come entità politica, non esiste e non esisterà. Non è neanche quella bandiera blu a tante stelle, brandita in segno di irreversibilità del faticoso processo di integrazione. Ma nel gioco equilibrista che ha contrassegnato, fino all’ultimo giorno utile, la sua confezione, la Dichiarazione è un documento impegnativo e inequivocabile.

Brexit non ha aleggiato sinistramente, l’euro non ne esce indebolito come Putin e Trump avrebbero auspicato, la coesione enunciata non è parente intima dello status quo. Non è poco. C’è un sentore di ripartenza diffuso sia nel testo che nelle espressioni usate dai protagonisti. Infatti, se i cosidetti “sovranisti” possono, a ragione, sostenere di aver dettato l’agenda del dibattito politico che ha preceduto l’evento di Roma e l’avvio della stagione delle elezioni politiche, l’intimidazione non ha funzionato. La Dichiarazione non certifica un’Europa dilaniata dalle incertezze, ma semmai portatrice di un desiderio di ridare – rifacendoci a Vaciago – un’anima al proprio futuro.

Perché questo accada veramente, occorre che si affermi un europeismo senza se e senza ma. Gli “europeisti” non devono essere indulgenti verso le cose che non vanno nel concreto sviluppo della governance politica e amministrativa dell’Unione, ma non possono permettersi il piacere del gioco a distingersi, il gusto di fare le pulci ora a questo, ora a quell’altro, il furbesco tentativo di sopravvivere pur di non cambiare. Tutto questo, finora, ha lastricato di facilitazioni, la strada dei “sovranisti” e l’opinione pubblica ne è uscita frastornata. Gli italiani, storicamente iper europeisti, ora nei sondaggi si dichiarano a maggioranza delusi, ma nello stesso tempo non vogliono uscire dall’euro. Contraddizione che potrebbe alimentare più le mire separatiste dei “sovranisti” che le speranze degli “europeisti”. 

Eppure, le carte in mano ai fautori di un’Europa più unita, non sono poche e di poco peso. Innanzitutto la certezza che, come diceva Mitterand, “il nazionalismo è la guerra”. Presagio sostenuto dalla storia europea, ma anche dalla convinzione che senza una forte cornice di solidarietà e non solo di interessi, la competizione tra le nazioni dell’Europa porterebbe inevitabilmente alla conflittualità finanziaria e commerciale e con essa allo sfascio delle relazioni tra i popoli.

In secondo luogo, la possibilità di concentrarsi sulle risposte da dare ai giovani. Risposte di senso, di conoscenze, di lavoro. La crisi non morde più come nel decennio passato e bisogna cogliere l’occasione per disegnare un futuro serio e non precario alle giovani generazioni. E a questo proposito andrebbe riletto un articolo che Ezio Tarantelli scrisse 32 anni fa su Repubblica, intitolato “I dieci comandamenti per salvare l’Europa”. Il nocciolo era questo: creare un Fondo europeo e ogni Stato “avrebbe un diritto di prelievo…..pari al 10% dei suoi disoccupati.  Chi ha più disoccupati ha più diritti di prelievo, in base al ben noto principio di stabilizzazione automatico della domanda aggregata.” Solo un’Europa che si propone erogatrice di lavoro, può contare sull’attenzione dei giovani.

In terzo luogo, l’organizzazione dell’accoglienza dei migranti. L’Europa invecchia ma l’Europa è ricca e soprattutto l’Europa è colta. E’ impossibile che possano prevalere la paura del diverso, la chiusura nell’egoismo, la rozzezza delle soluzioni. Si tratta di vivere questo esodo non come un’emergenza ma come una normalità. E quindi con una logica organizzatrice a tutto tondo. Una effettiva progettualità per sostenere i Paesi di più forte emigrazione, la creazione di tanti corridoi umanitari alternativi alle tratte dei mercanti di carne umana, il dispiegamento di strutture adeguate all’accoglimento e all’integrazione negli Stati europei sulla base di una intelligente e umana solidarietà.

Ci sono, ovviamente, tanti altri temi che l’Europa deve affrontare, come quello della difesa comune dal terrorismo, quello di combattere i paradisi fiscali interni all’area europea, quello della tutela ambientale. Ma se desse risposte robuste e convinte su quelle tre aree d’intervento citate, sarebbe proprio una bella Europa, all’altezza della sua cultura e della sua importanza nel mondo.    

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