Signori presidenti, miei cari amici, permettetemi di richiamare la vostra attenzione sulla forma che abbiamo tentato di dare a questa nostra Conferenza.
Voi sapete che il nostro obiettivo principale è di facilitare i lavori e di provocare l’incontro dei parlamentari delle nostre Assemblee.
Le nostre riunioni non sono destinate e prendere decisioni politiche che spettano ai Parlamentari, detentori delle sovranazionalità nazionali, ma sono liberi incontri, colloqui tra le varie tendenze e le varie nazionalità, un foro nel quale possono confrontarsi pareri diversi, ma tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa.
Tra i problemi che si pongono attualmente alle nostre coscienze, noi ne abbiamo scelti alcuni essenziali, e per trattare di ciascuno di essi abbiamo fatto appello a personalità, uomini politici o alti funzionari, la cui esperienza fosse considerevole. Le discussioni seguiranno i diversi rapporti. Ma la nostra Conferenza non voterà delle risoluzioni, non si dividerà in una maggioranza ed in una minoranza. Quali che siano le divergenze, che non cercheremo di dissimulare, le affinità profonde e le volontà comuni parleranno da sé…
Ciò premesso, circa il nostro programma, mi sia consentito di dirvi con quale animo io vengo tra voi.
Dopo aver parlato al Congresso dell’Aia nell’ottobre scorso davanti ai rappresentanti dei paesi che si sono voluti chiamare la “Piccola Europa”, sono felice di poter ora levare lo sguardo verso più vasti orizzonti e di salutare qui i parlamentari di un’Europa formata dalla maggior parte dei paesi che si improntano alla sua civiltà e alla sua storia. Proprio in questa sala, io sono stato citato a comparire or non sono molti anni, per ascoltare le sensazioni della guerra. Oggi, noi ci riuniamo in piena fiducia per adoperarci all’unione dei nostri popoli.
Tutte le nazioni associate al Consiglio d’Europa sono rappresentate in questa Conferenza, nella quale vedo con soddisfazione la numerosa delegazione britannica, nella quale abbiamo anche il piacere e l’onore di accogliere degli emeriti parlamentari appartenenti a due paesi partico-larmente cari europei: la Svizzera, culla della libertà e terreno di prova della democrazia, e la nuova repubblica austriaca, sentinella verso l’Oriente della civiltà occidentale.
Questa Assemblea Parlamentare, che non aveva finora mai raggiunto proporzioni così vaste e di tale genere, assume pertanto un significato ed un valore particolare; ma ci costringe a limitarne i compiti.
Noi non discuteremo ad esempio di un argomento che, attualmente, costituisce uno dei più importanti che siano sottoposti alle decisioni sovrane di ogni Stato in particolare, vale a dire non parleremo della Comunità di Difesa.
Non, naturalmente, per misconoscenza capitale di questa struttura, nocciolo iniziale dell’integrazione desiderata, ma perché il soggetto ha oltrepassato il limite delle discussioni di carattere generale e si trova ormai già giudicato, o in procinto di esserlo, da parte dei Parlamenti nazionali.
È una questione in ogni modo che, per quanto possa essere considerata di massimo interesse europeo, non concerne direttamente o nella stessa misura tutti i paesi qui rappresentati.
Certo, le alleanze difensive e soprattutto gli armamenti che ne sono la conseguenza, costituiscono una dura necessità preliminare. Infatti, noi non possiamo erigere l’edificio della Comunità Europea se non abbiamo prima tracciato intorno al nostro suolo un bastione protettivo che ci permetta di intraprendere all’interno il lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione.
Ma, appena saranno state prese le precauzioni necessarie al mantenimento della pace, bisogna riconoscere che la vera e solida garanzia della nostra unione consiste in una idea architettonica che sappia dominare dalla base alla cima, armonizzando le tendenze in una prospettiva di comunanza di vita pacifica ed evolutiva.
Io non credo che questo pensiero dominante possa essere imposto da una sola delle correnti di idee che ai giorni nostri si sono affermate nella civiltà europea come prodotti della sua evoluzione culturale, sociale e politica.
Mi pare che questa idea dominante non possa essere rappresentata dal solo concetto liberale sull’organizzazione e l’uso del potere politico. Questo concetto tuttavia, il quale presuppone le libertà essenziali alla base della vita pubblica, costituisce un elemento indispensabile all’elaborazione di quelle linee architettoniche fondamentali per l’edificio che stiamo per costruire.
Né potrebbe bastare a questa costruzione la sola idea della solidarietà della classe operaia. Eppure questa solidarietà, superando col suo impulso internazionalista le frontiere degli Stati, potrebbe sembrare la meglio qualificata per frenare e reprimere gli eccessi dei nazionalismi, favorendo lo slargamento del mercato del lavoro e delle merci. In dati momenti storici, essa ha infatti agito in questo senso, ma talvolta anche in senso inverso.
Le cause di debolezza in questi casi sono diverse, e talune derivano precisamente dall’eccessiva limitazione dello spazio vitale della classe operaia.
A causa di questa limitazione gli operai sono spinti a cercare la soluzione dei loro problemi nella lotta di classe all’interno dei rispettivi paesi; ed in questa lotta hanno, talvolta, perduto la coscienza di quella che è la caratteristica più importante del Movimento Europeo, cioè la coscienza della funzione eminente, non dello Stato o della collettività, ma dell’uomo e della persona umana.
Oggi una parte della classe operaia subisce la suggestione dello Stato e si trova per il momento in contrasto con l’ideale europeo, indebolendo il ruolo che potrebbe esercitare il movimento operaio in opposizione con le tendenze totalitarie del bolscevismo.
Né bisogna però sottovalutare il contributo che proprio dall’umanesimo che si trova all’origine del movimento socialista può essere portato alla formazione dell’unità morale dell’Europa. Se la solidarietà della classe operaia non è sufficiente a costituire da sola la base di quell’unità, la solidarietà di altri interessi industriali e agricoli, lo sarebbe ancor meno.
Certo, per l’unità europea lo slargamento del mercato comune è un argomento che offre la sua importanza, ma la libera concorrenza che ne sarebbe la conseguenza presenta anch’essa degli aspetti negativi che possono esser ridotti soltanto dalla forza di un sentimento o di un’idea capace di stimolare la coscienza e la volontà. Questo sentimento, quest’idea, appartengono al patrimonio culturale e spirituale della civiltà comune.
Se con Toynbee io affermo che all’origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell’apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, col suo colto del diritto ereditato degli antichi, col suo culto della bellezza affinatesi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria.
È’ vero che queste forze spirituali rimarrebbero inerti negli archivi e nei musei se l’idea cessasse di incarnarsi nella realtà viva di una libera democrazia che, ricorrendo alla ragione e all’esperienza, si dedichi alla ricerca della giustizia sociale; è vero anche che la macchina democratica e l’organizzazione spirituale e culturale girerebbero a vuoto se la struttura politica non aprisse le sue porte ai rappresentanti degli interessi generali e in primo luogo a quelli del lavoro.
Dunque, nessuna delle tendenze che prevalgono nell’una o l’altra zona della nostra civiltà può pretendere di trasformarsi da sola in idea dominante ed unica dell’architettura e della vitalità della nuova Europa, ma queste tre tendenze opposte debbono insieme contribuire a creare questa idea e ad alimentare il libero e progressivo sviluppo.
Ora sarà proprio questa nostra Assemblea che, nel corso dei prossimi dibattiti, si sforzerà di trovare i princìpi di una sintesi politica, sociale, economica e morale in base alla quale gli Stati sovrani possano decidere di edificare la casa comune.
(*) Discorso pronunciato alla Conferenza Parlamentare Europea il 21 aprile 1954. Alcide De Gasperi e la politica internazionale, Roma, Cinque Lune, 1990, Vol. III, pp. 437-440.