In queste ore si è riacceso improvvisamente il dibattito sul tema del reddito di cittadinanza, addirittura si sono diffuse notizie non vere rispetto a possibili code davanti ai CAF per richiederlo in regioni come Puglia e Basilicata sebbene diversi CAF abbiano segnalato come in effetti qualche cittadino abbia realmente telefonato per chiedere informazioni. Al netto della polemica sul peso che la proposta del reddito di cittadinanza avrebbe avuto o meno rispetto al risultato elettorale del Movimento Cinque Stelle (certamente non è il principale motivo della loro vittoria), senza dubbio è importante comprendere perché questo tema abbia raccolto consenso nel nostro Paese più che in passato.
Prima di tutto, però, è necessario ribadire, quello che abbiamo detto diverse volte e in tanti, ossia che la proposta del Movimento Cinque Stelle non è assimilabile alla definizione vera e propria del reddito di cittadinanza, così come descritto da diversi studiosi a livello europeo. Per una definizione completa, si rimanda al prezioso e complesso volume degli studiosi Philippe Van Parijs e Yannock Vanderborght “Il reddito di base. Una proposta radicale”, i quali definiscono il reddito di cittadinanza o reddito di base “un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite” (Il Mulino, 2017), il reddito di cittadinanza è quindi “incondizionato”.
Il reddito minimo garantito, invece, si differenzia dal reddito di cittadinanza (o reddito di base) in quanto è una misura universale, ma selettiva, condizionata ossia all’accertamento di alcuni requisiti reddituali, familiari e di condizione lavorativa, nonché alla disponibilità a cercare un lavoro. Si rimanda, inoltre al saggio dell’economista Elena Granaglia “Il reddito di base” (Ediesse, 2016), all’interno del quale sono approfonditi tutti gli aspetti economici delle diverse proposte esistenti in Europa, e delle differenze con le proposte di reddito minimo garantito, sperimentate in Italia e all’estero.
Di recente, inoltre, è stato pubblicato il prezioso contributo del giurista Giuseppe Bronzini “Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione”(Gruppo Abele, 2017) il quale approfondisce diversi temi: il dibattito teorico intorno alla proposta della garanzia di un minimo vitale (ius existentiae); le differenze tra il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito ed il processo di costituzionalizzazione di quest’ultimo; infine il nesso tra le proposte di reddito minimo garantito ed il lavoro, alla luce delle trasformazioni tecnologiche.
Questo per dire che il tema è davvero molto complesso (si consiglia di approfondire sul sito del BIN – Basic Income Network, la rete italiana per il reddito di base); inoltre il dibattito accademico che coinvolge economisti, giuristi, filosofi, sociologi è in costante aggiornamento, per tale ragione risulta fuori luogo ridurre la discussione ad una sterile diatriba elettorale.
La proposta (ddl 1148) del Movimento Cinque Stelle, sembrerebbe aver poco a che fare con il reddito di cittadinanza dei paesi del Nord-Europa, ma risulta più simile al REI Reddito di Inclusione, proprio recentemente approvato dall’ultimo Governo, però con dei criteri reddituali più alti ed un ammontare più elevato. Secondo la proposta del M5S, infatti, potrebbero accedere alla misura tutti i maggiorenni, italiani, privi di lavoro e di reddito che hanno un reddito annuo netto calcolato secondo l’indicatore ufficiale di povertà monetaria dell’Unione europea, pari ai 6/10 del reddito mediano equivalente familiare, pari a 9748 euro nel 2016 (mentre per accedere al Reddito di inclusione, è necessario un ISEE pari a 6.000 euro di reddito un valore ISRE non superiore a 3mila euro). L’ammontare del reddito nella proposta del M5S sarebbe pari a 780 euro massimi per un single e fino a 1.638 euro per una coppia con due figli (mentre il REI prevede un ammontare pari a euro 187, 50 per un single e un massimale di euro 534,37 per i nuclei con 5 componenti ed euro 539,82 per i nuclei con 6 o più componenti).
Rispetto al tema della condizionalità la proposta di reddito del M5S contiene alcuni aspetti controversi che andrebbero approfonditi bene: dall’obbligo per i beneficiari di documentare una ricerca attiva di lavoro non inferiore a due ore giornaliere, a quello di accettare qualsiasi lavoro se dopo un anno non hanno trovato un’occupazione. Come affermato in occasione dell’approvazione del Rei, è necessario stare attenti, quando si introducono condizionalità di questo tipo alle misure di sostegno al reddito, onde evitare che esse diventino una mera “contropartita” per il beneficio ricevuto. In questo caso, infatti, il reddito rischierebbe di trasformarsi in un dispositivo di “controllo”, invece che di liberazione delle persone dal ricatto di dover accettare un lavoro “a qualsiasi condizione”.
Per quanto riguarda i costi, l’Istat ha calcolato che la proposta del M5S costerebbe 14 miliardi di euro all’anno, secondo altri studiosi, invece, la spesa ammonterebbe a 29 miliardi di euro (questo perché vengono conteggiati altri costi oltre quelli dell’erogazione del beneficio economico). Secondo quanto si legge nella proposta, la parte più consistente delle coperture deriverebbe dalle detrazioni fiscali dei redditi più alti, esclusi quelli sociali (5 mld) e dalla riduzione della percentuale di deducibilità degli interessi passivi per banche e assicurazioni (2 mld), aumento dei canoni delle multinazionali del gas e del petrolio (1,5 mld), aumento della tassazione del gioco d’azzardo (1 mld). A queste fonti di finanziamento si affiancherebbero, tra le altre minori, anche i tagli a vitalizi, auto blu, indennità parlamentari, fondi ai partiti e all’editoria.
Da quanto descritto finora è possibile affermare che il M5S, pur avendo fatto egemonia su un tema “sottratto” alla sinistra (politica e sociale) del nostro Paese, che aveva costruito negli anni mobilitazioni (si pensi ai movimenti degli studenti e dei precari) e proposte (si pensi ai disegni di legge presentati in passato dallo stesso PD e da SEL, alla proposta del Reddito di Dignità di Libera e della Rete dei Numeri Pari, nonché alle numerose sperimentazioni regionali), incorra in alcuni rischi. In particolare, operando in modo scevro da qualunque confronto con realtà sociali e corpi intermedi, potrebbe modificare, se non stravolgere quello che è il fine principale del reddito stesso: liberare le persone dal ricatto di lavorare in condizioni non accettabili pur di sopravvivere.
E rispetto al rapporto reddito-lavoro si consenta un breve inciso, che è utile sempre ribadire: sarebbe opportuno che il dibattito a sinistra provasse a smarcarsi da un’ottica contrappositiva, che rischia perennemente di farlo naufragare, per concentrarsi su una prospettiva di complementarietà, così come Sbilanciamoci ha provato a fare negli anni. Pensare che sia necessario garantire un reddito nella discontinuità e nella intermittenza lavorativa, non vuol dire evocare la fine del lavoro salariato, ma ragionare anche intorno alle trasformazioni del lavoro e quindi della protezione sociale.
D’altro canto, però, le forze di sinistra dovrebbero interrogarsi su uno degli argomenti centrali, per il quale la proposta del reddito di cittadinanza ha raccolto consenso (anche se sono d’accordo con chi dice che non è il motivo del successo pentastellato), ossia l’idea di un modello di società in cui l’universalismo del welfare torni ad essere la risposta alla deriva di privatizzazione dello stesso, dopo anni in cui i governi hanno raccontato che proprio sul welfare si doveva tagliare tutto il possibile “perchè non ce lo si poteva permettere”. Ecco, forse ripartire da una riflessione più approfondita sui limiti dell’universalismo selettivo e del workfare, invece che perseverare nella loro strenua difesa, potrebbe aiutare le forze di sinistra ad immaginare un’idea di welfare più consona a rispondere all’ estrema insicurezza e mancanza di protezione sociale avvertita dalla maggior parte degli abitanti del nostro Paese.
*da Sbilanciamoci, 20/03/2018