La legge di stabilità inizia questa settimana l’iter parlamentare. L’obiettivo del governo è chiaro: invertire la tendenza negativa dell’economia che si prolunga da troppo tempo e oltre le previsioni. Non consola il fatto che tutta l’area euro sia in crisi. Per l’Italia si tratta, infatti, di recuperare un gap che la distanzia dagli altri principali paesi europei, in particolare la Germania.
Da troppi anni siamo in recessione e solo tre anni fa eravamo al collasso. Oggi la situazione economica è ancora molto difficile, ma non ai livelli del 2011; i conti pubblici, sui quali pesa comunque un eccessivo debito, sono, però, sotto controllo. Prova ne sia che manteniamo un avanzo di bilancio e abbiamo potuto gestire il nostro deficit dentro il 3% stabilito dalle regole europee.
Nei giorni scorsi la Commissione uscente ha eccepito che questa scelta, pur legittima, presentava dei rischi di tenuta dei conti. Lo ha fatto con una lettera “riservata” al Ministro dell’economia italiano. Ma il contenuto della lettera era già a conoscenza dell’opinione pubblica e degli operatori economici in quanto era stato reso pubblico anticipatamente dal quotidiano economico inglese Financial time.
La diffusione di notizie non confermate provoca, in questi casi, preoccupazione nei media ed anche strumentalizzazioni ed illazioni e turbolenze nei mercati. Perciò il governo italiano, per rispetto dei cittadini, che chiedono, giustamente, la massima trasparenza e ne hanno diritto, nonché per offrire agli investitori la giusta versione dei fatti, ha reso pubblica la lettera integrale dalla quale si evince che la natura dell’osservazione della Commissione era tutta prudenziale e non ostativa delle scelte espansive adottate.
Sicché, il compromesso raggiunto in queste ore con la UE, che pure sottrae alla manovra 4,5 miliardi di riduzione delle tasse, è compatibile con i 36 complessivi della legge di stabilità. Ma, soprattutto, è la conferma che il Paese ce la può fare con le proprie gambe. Questo risultato ci legittima nel rinvio di un anno del pareggio di bilancio e nell’utilizzo di tutti i margini possibili del “castelletto” più prossimo al limite del 3% per operare scelte espansive. In sostanza, si tratta dell’utilizzo di quella flessibilità già prevista dalle regole, di cui tanto si è parlato questa estate, ma il cui utilizzo, ancorché legittimo, veniva politicamente negato da molti, in primis la banca centrale tedesca.
Ovviamente, l’altra faccia della medaglia è la inadeguatezza della politica europea che emerge proprio da vicende come questa. L’Europa deve convincersi definitivamente che una politica di rigore finanziario regge se è accompagnata, non seguita, da politiche espansive che favoriscano la crescita economica e, attraverso essa, l’occupazione. Questa diversa impostazione, rispetto ad oggi, serve per l’intera Europa, che è tutta in crisi, e non solo per i paesi in maggiore difficoltà. La distinzione che molti fanno tra Paesi di serie A e paesi di serie B prospettando addirittura regimi diversi (ricordate, ci arrivammo vicini all’inizio della crisi greca e la minaccia è pur sempre dietro l’angolo) ci offre una valutazione statistica delle condizioni specifiche delle singole economie, ma non soluzioni credibili alla crisi comune dell’area euro.
Facciamo bene, dunque, mentre rispettiamo le regole, a denunciare la esigenza di un cambiamento che dovrà essere adottato dalla nuova Commissione, ormai, di fatto, insediata.
Ci attendiamo che il programma presentato dal neo Presidente Junker si realizzi da subito. I 300 miliardi, checché ne pensi qualcuno, devono entrare in circuito al più presto. Come ci aspettiamo che l’asta che la Bce ha indetto per Dicembre, finalizzata ad allargare le maglie del finanziamento alla economia reale, sia ben accolta dal sistema bancario europeo.
Dentro questo scenario si svolgerà il confronto parlamentare e politico. Come già si è visto in questi giorni, esso non sarà limitato alla legge di stabilità, ma coinvolgerà gli altri provvedimenti aperti, in particolare la riforma del lavoro. E’ su questo punto che si concentrano le critiche, ma anche le aspettative. Proprio nel confronto europeo e da parte degli investitori la attesa sull’approvazione del job act è quasi spasmodica. Il rischio è che le diatribe di merito, in particolare sull’articolo 18, sottovalutino il significato simbolico di queste novità ai fini della credibilità del nostro Paese. Peraltro, siamo sinceri, la soluzione prospettata nelle conclusioni della direzione del Pd, è tale da reggere la prova sia del segnale di cambiamento, sia della tenuta di tutele adeguate. Come è successo per la riforma del Senato, che ad un certo punto è sembrato che la posizione degli oppositori fosse andata ben oltre il merito, sottovalutando il significato della riforma in sé, così sembra debba avvenire anche per la riforma del lavoro.
Ma, questo atteggiamento – tutto politico – sta già contagiando la stessa discussione sulla legge di stabilità. Lo si è, purtroppo, visto nell’incontro tra il Governo e i sindacati confederali. Infatti, qualsiasi osservatore è in grado di dire che è stato un incontro utile, interlocutorio, non conclusivo, ma aperto a soluzioni. Certo non si è trattato di una trattativa classica e nella prima occasione nella quale si entrava nel merito non si potevano pensare che ci fossero già risposte. Aver scelto di svilire questo incontro è un boomerang per il sindacato. La replica di Renzi (“non facciamo trattative”), d’altra parte, non annulla il dialogo di merito che può essere avviato alla ricerca, più che di una improbabile trattativa, di soluzioni diverse e migliorative di quelle prospettate nel testo iniziale della stabilità su punti considerati importanti per i lavoratori e i cittadini (quali, ad esempio, il ruolo dei patronati e dei fondi pensione, o un qualche riconoscimento della realtà dei pensionati).
Ma, se l’obiettivo degli oppositori è quello di costruire una alternativa politica nessun merito è sufficiente e valido. Qualcuno potrà obiettare che ciò vale anche per Renzi. Ma, Renzi ha un disegno politico esplicito: aggregare su una linea riformatrice il massimo del consenso possibile per realizzare le riforme. E’ su questa impostazione – non sui singoli contenuti! – che non è disposto a trattare.
Al contrario, chi si oppone oscilla tra posizioni ancora indefinite. Da un lato la parte interna al Pd, indecisa tra sviluppare una opposizione, che però, ad un certo punto deve accettare le scelte della maggioranza, o portare il dissenso agli estremi verso una possibile scissione; dall’altro una componente sindacale e i partiti minori della sinistra, alla antica ricerca di una nuova casa politica a sinistra del Pd. Entrambi si sono ritrovati sabato in piazza sotto le bandiere della Cgil. Sicché, la manifestazione della Cgil ha fatto da aggregatore della sinistra più rigida. Il dubbio che dietro la posizione della Cgil ci sia un disegno politico che altera la discussione di merito è, a questo punto legittimo.
Questione che, credo, non lascerà indifferenti gli altri sindacati, la Cisl e la Uil in particolare. In effetti, se lo scontro assume il significato di scegliere se stare dalla parte del cambiamento e delle riforme e se essere complici della costruzione di una formazione politica alternativa, la tradizionale vocazione autonoma del sindacalismo riformista sarà messa a dura prova…
Tutto ciò influenzerà la discussione parlamentare sulla legge di stabilità. Gli 80 euro, lo sgravio Irap, gli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato sono sicuramente una svolta sufficiente a concentrarsi sulle potenzialità espansive che tutti riconoscono a questa legge di stabilità. Potenzialità ancora maggiori di quelle operate dal primo governo Prodi che, non dimentichiamolo, cadde per la totale miopia della stessa sinistra che oggi si appresta a riproiettare quel film.
(*) Deputato Pd, sottosegretario all’Economia. Presidente dell’Associazione AReS