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La volonta’ popolare e’ uscita di scena

C’era una volta Delors. E c’erano anche Kohl e Mitterrand. C’era, insomma, la politica (compresa quella che al Consiglio europeo di Milano, nel 1985, aveva costretto la Thatcher ad ingoiare l’Atto unico europeo). 

Solo dopo venne il Pensiero unico: il quale, per essere oggettivi, non si affermò soltanto perché nel frattempo Mitterrand era morto, Delors si era fatto vecchio e Kohl e Craxi erano stati epurati. Si affermò soprattutto perché era crollato il muro di Berlino, qualcuno andava dicendo in giro che era finita la storia, e Bush immaginava che gli Usa potessero essere il perno di un nuovo ordine mondiale.

Se non si tiene conto di questo scenario, non si capisce l’eterogenesi dei fini cui ha dato luogo il trattato di Maastricht, che anche temporalmente separa una fase dall’altra nel processo di unificazione europea: quella in cui l’identità della Comunità veniva in qualche modo definita anche dalla rigidità del confine orientale (dal Muro, insomma, che identificava almeno in negativo quanti stavano da questa parte), da quella – quando fra l’altro la Comunità volle diventare Unione – in cui quell’elemento distintivo non c’era più. 

A Maastricht, in altri termini, si pensava di poter replicare la pace di Vestfalia (moneta unica, ma cuius regio eius religio in materia fiscale), mentre invece si doveva celebrare un Congresso di Vienna che rimettesse ordine nell’Europa postcomunista. Anche per questo, dopo, capitò che Prodi – il quale anche per cultura politica avrebbe potuto essere il degno successore di Delors – allargasse alla rinfusa l’Unione a una miriade di Stati orientali; capitò che Fabius – il quale anche per cultura politica non avrebbe mai potuto essere il degno successore di Mitterrand – affondasse con un referendum il trattato costituzionale dell’Unione; e capitò che la Merkel – che pure non aveva mancato di determinazione nell’epurare Kohl – finisse per diventare egemone a sua insaputa, e soprattutto contro la sua volontà.

In parallelo, del resto, si andava disgregando il sistema dei partiti che bene o male aveva governato la Comunità europea nei suoi primi quarant’anni di vita. In silenzio il Ppe, al quale guardava ancora Prodi quando era alla guida del suo primo governo, si trasformava in partito di centrodestra: non solo accettando l’adesione di Berlusconi (compresi i postfascisti che si tirava dietro), ma anche dei gollisti e dei tories; mentre il Pse si allargava ad Est incorporando ovest et boves postcomunisti, ma non poteva contare sulla piena e franca adesione dei postcomunisti italiani (che pure figuravano fra i suoi soci fondatori), impaniati com’erano nel gioco a somma zero messo in scena dai loro promessi sposi che non volevano “morire socialisti”.

I partiti europei, si sa, non sono peraltro gran cosa: i politologi li chiamano “partiti di secondo grado”, dal momento che non sono legittimati direttamente dal voto popolare, ma nascono dall’assemblaggio dei partiti nazionali. Si poteva però sperare che, secondo le leggi dell’evoluzione, la funzione creasse l’organo. Tanto più che a livello nazionale non mancava la percezione del nuovo scenario in cui l’Europa era destinata a vivere. Lo aveva capito Blair quando aveva emancipato i laburisti dalla tutela delle Trade unions; lo aveva capito Schroeder quando si era separato da Lafontaine anche a costo di una sconfitta elettorale; e lo avevano capito perfino i gollisti quando avevano eretto un confine invalicabile che li distingueva dalla destra lepenista (lo avevano capito meno i popolari austriaci, passati con un giro di valzer dalla coalizione coi socialisti a quella coi nazionalpopulisti di Haider). 

Ma l’albero di trasmissione fra partiti nazionali e partiti europei non funzionava (e continua del resto a non funzionare), e la funzione non ha creato l’organo: per colpa, sicuramente, di quelle imperfezioni istituzionali che giustificano chi denuncia il “deficit democratico” dell’Unione europea; ma anche per colpa del deficit culturale che caratterizza il dibattito pubblico nei principali paesi europei, nei quali non a caso l’innovazione, dove e quando c’è stata, è stata promossa piuttosto dalla leadership politica che dall’intellighenzia.

E’ in questo brodo di coltura che ha potuto prosperare il Pensiero unico. D’altra parte cosa poteva esserci di meglio che una moneta senza Stato per consentire ai teorici della postdemocrazia (che del Pensiero unico è la conseguente dottrina politica) di condurre le loro esercitazioni a cielo aperto? E come non vedere nella moneta senza Stato, da parte dei rigoristi del Mercato, l’inveramento di una profezia che in Italia era stata annunciata col “divorzio” fra la Banca centrale e il governo? E non era stato poi Clinton, l’eroe eponimo dell’Ulivo mondiale, a celebrare le seconde nozze fra banche di risparmio e banche d’affari?

Sul Foglio del 14 marzo Giorgio La Malfa – con una narrazione degna di Christopher Clark e dei suoi Sonnambuli –  ci ha peraltro ricordato che molte delle aporie dell’Unione monetaria risalgono direttamente  alla commissione Delors ed all’ottimismo della volontà con cui il suo presidente seppe manipolare le ambizioni e le debolezze dei governatori delle banche nazionali. Ma allora c’era, appunto, l’ottimismo della volontà, virtù politica in perenne tensione con quell’etica della responsabilità che neanche per Max Weber basta da sola a governare il cambiamento. Ora invece, nella migliore delle ipotesi, ci sono Mario Monti e Sylvie Goulard a consigliarci di guardare lontano per raggiungere la democrazia in Europa, e di rassegnarci nel frattempo al dominio della tecnocrazia.           

La categoria della volontà, infatti, è uscita di scena. Quella della volontà popolare, innanzitutto, che non a caso sempre più scorre fuori dagli argini di una democrazia rappresentativa ridotta a palude, provocando alluvioni che difficilmente saranno benefiche come quelle del Nilo. E quella della volontà dei leader, che non a caso, con buona pace di Carl Schmitt, hanno da tempo rinunciato a legittimarsi governando lo stato d’eccezione. E non a caso, del resto, l’anniversario dell’epifania di questa eclisse della volontà in Europa cade il 2 novembre.

Era il 2 novembre del 2011, infatti, quando George Papandreou propose di indire un referendum per approvare il piano di risanamento imposto dalla Troika alla Grecia. Due giorni dopo già non era più primo ministro, e neanche in seno al Pse ci fu un cane che difendesse quello che fra l’altro era anche il presidente dell’Internazionale socialista.

Ora che Papandreou ha dovuto perfino lasciare il Pasok, e non è riuscito nemmeno a rientrare in Parlamento, qualcuno spera che sia ancora dall’Acropoli di Atene che la volontà popolare possa tornare a scorrere in argini accettabili. Probabilmente si illude, anche se Tsipras sembra più abile del suo ministro delle Finanze nel coniugare volontà e responsabilità. Ma resta il fatto che in Europa la politica latita, e che i tecnocrati non sanno che pesci prendere nel momento in cui essa fa fragorosamente sentire le sue ragioni – ad Est come a Sud – ai confini dell’Unione.

C’è da sperare che i rischi incombenti inducano qualcuno a riparare l’albero di trasmissione. Difficilmente, però, questo qualcuno si troverà nell’ambito del centrodestra. Cameron, Sarkozy e la stessa Merkel rischiano di essere rapidamente raggiunti dall’onda di piena che procede da destra (decisamente più impetuosa di quella che potrebbe procedere da sinistra), mentre perfino Salvini può permettersi  di scegliere fra Berlusconi e Casapound.

Per i socialisti, quindi, hic Rhodus, hic salta. Per ora, a quanto pare, salta solo Renzi, che pure socialista non è nato ma lo è diventato (poco male, se è vero che i parenti si trovano e gli amici si scelgono). Guida il partito più forte in seno al Pse, ed è alla testa del governo di uno dei paesi fondatori. E se invece di farsi irretire dalle chiacchiere sul Partito della Nazione e si impegnasse a costruire davvero quel Partito del socialismo europeo che ora esiste solo sulla carta, potrebbe perfino riuscire nell’impresa. Potrebbe cioè incanalare la volontà di un popolo che non vuole rinunciare al modello sociale che ha costruito negli anni gli argini di quella democrazia in Europa che non si crea guardando lontano, ma si crea hic et nunc  col coraggio di decidere nello stato d’eccezione.

 (*) Direttore politico di Mondoperaio

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