L’Istat ci dice che l’occupazione nel 2015 è aumentata di 206mila unità e la disoccupazione è scesa all’11,3%. Buone notizie, anche se non siamo in grado di valutare quanto vale l’effetto anticipatore delle assunzioni, per i forti incentivi 2015 che saranno molto ridotti da questo anno e comunque si tratta di gocce in un mare di livelli occupazionali bassissimi.L’Eurostat ci dice che il nostro Paese è ultimo, dopo la Grecia, nell’occupazione dei laureati, ma non solo. L’Italia è il paese europeo che, pur essendo carente di giovani per la bassa natalità, da anni costringe ad emigrare più giovani rispetto a tutti gli altri paesi, Grecia esclusa. Contemporaneamente il Presidente Mattarella ci dice che il 2016 dovrà essere l’anno del lavoro. Lo sarà davvero? Non è facile malgrado le buone prospettive maturate nel 2015, visto il divario occupazionale enorme rispetto alla UE. Abbiamo 10 punti in meno di tasso di occupazione, cioè il 56% di popolazione 15-64 anni occupata contro il 65% europeo. Poiché la popolazione in età da lavoro in Italia è di 40 milioni, 10 punti di tasso di occupazione in meno equivalgono a 4 milioni di posti lavoro che ci mancano per essere europei. Se poi ci misuriamo coi paesi più avanzati, Austria, Germania, Olanda, Svezia, etc., da cui ci dividono 20 punti nel tasso di occupazione, il divario occupazionale sale addirittura di 8 milioni. Perché il 2016 sia l’anno del lavoro bisognerebbe essere capaci di creare almeno un milione di posti lavoro. Obiettivo possibile solo a condizione di cambiare completamene marcia rispetto al passato, adottando politiche pro-labor, speciali, adatte a periodi di bassa crescita. È pericoloso scommettere su tassi di crescita superiori al 2% impossibili sul medio periodo. La crescita è necessaria, ma non dobbiamo più pensare che con un mondo che cresce meno del 3% e paesi emergenti, Cina, India, Brasile, Vietnam, Indonesia, che crescono più del 6%, la crescita media dei paesi industriali possa superare il 2% sul medio periodo. Occorre perciò puntare sulla qualità delle produzioni di beni e servizi più che sulla quantità, sullo sviluppo e l’export dei servizi, quelli avanzati ma non solo – turismo, cultura, istruzione, entertainement, servizi alle famiglie ed alle imprese – che in Europa sono molto più sviluppati che da noi e infine, last but not least, prestando attenzione alla durata del lavoro, che in Italia è mediamente assai più lunga che in altri paesi europei. Premessa culturale a queste politiche speciali pro-labor, è quella di convincersi che la salute occupazionale di un paese, più che dal tasso di disoccupazione è misurata dal tasso di occupazione, cioè da quante persone in età da lavoro, sono occupate. Infatti il numero di disoccupati risulta complementare al numero degli inattivi, e si riduce in periodi di crisi grazie agli “scoraggiati” che rinunciano ad una ricerca senza speranza, passando da disoccupato ad inattivo. In Italia abbiamo il più alto numero di inattivi di tutti i paesi industriali, 14,5 milioni, cioè il 36% della popolazione in età da lavoro contro il 20% di paesi come Germania, Svezia, Olanda, etc. Romania e Svezia, il paese più povero ed uno dei più ricchi della UE, hanno lo stesso tasso di disoccupazione, tra 7% ed 8%, ma hanno tassi di occupazione diversi, 55% e 75%. L’Italia ha un tasso di disoccupazione in media europea, intorno al 12%, ma ha 10 punti in meno del tasso di occupazione europeo. L’OCSE, nel rapporto “Employment Situation”, mostra dati di occupazione positivi malgrado la bassa crescita. Nel triennio 2011-2014 l’occupazione è cresciuta di 1 punto percentuale nei 34 paesi dell’OCSE, e di 0,7 punti nei 27 paesi dell’Unione Europea. Da notare che nel triennio il Pil era cresciuto solo dello 0,7% l’anno nell’UE e dell’1,4% nell’OCSE. Come è stato possibile questo …miracolo occupazionale quando, a causa della produttività da progresso tecnico, difficilmente l’occupazione cresce quando la produzione non supera il 2%? In questi paesi 3 elementi di differenza balzano agli occhi: l’importanza del settore terziario pari al 75% dell’occupazione rispetto al nostro 68%, livelli medi di qualità delle produzioni di beni e servizi superiori ai nostri, orari di lavoro più corti, 1500 ore contro le 1800 dell’Italia. Questi paesi hanno assunto l’obiettivo occupazionale come prioritario, facendo politiche speciali, adatte ad anni di bassa crescita, abolendo gli straordinari sostituiti con la Banca delle ore come in Germania o con l’Annualisation des oraires come le 35 ore in Francia, o con incentivi al part-time come in Olanda, mentre noi siamo rimasti gli ultimi europei a far pagare l’ora di straordinario addirittura meno dell’ora ordinaria, ad aumentare l’età pensionale ai massimi e a non consentire la “progressive pension”, chi vuole va in pensione prima rinunciando a qualche soldo. Solo cambiando radicalmente marcia nelle politiche pro-labor l’Italia può colmare l’enorme divario occupazionale che la condanna al sottosviluppo.
Una grande impresa, le 35 ore, la gestione della mobilità del lavoro
Il Censis ha sempre avuto vista lunga. Quest’anno ci annuncia che l’Italia è un Paese che