Lei l’ha conosciuto: come definirebbe Pierre Carniti?
Un sindacalista anomalo, che combinava la fermezza strategica con una grande capacità d’invenzione. Sono difficile alla memoria aneddotica, ma questo è il tratto di lui che più mi impressionò quando lo vidi all’opera, nel 1975, durante una trattativa sul destino di una fabbrica della Montefibre occupata a Pallanza, vicino Verbania.
Provi comunque a ricordare.
Da una parte la proprietà voleva chiudere la fabbrica, perchè dislocata in un territorio dalle comunicazioni disagevoli. Dall’altra gli operai, nella stragrande maggioranza provenienti dalla tradizione del movimento operaio comunista con una forte eredità resistenziale, reagirono al rischio di chiusura con l’occupazione. La trattativa era bloccata e molto difficoltosa e in quel frangente mi colpì la freschezza del negoziatore Pierre Carniti, attratto spasmodicamente dalla proverbiale mossa del cavallo, quella più abile perchè inattesa. Ecco, Carniti coniugava un’idea rettilinea del lungo periodo con un’idea scombinante del brevissimo, entrambe trattenute da un volto e una parola il cui sottofondo era sempre un autoironico senso della misura.
Il suo sindacalismo affonda nell’autunno caldo del 1969. Che Italia era?
Un mondo alla rovescia rispetto a quello di oggi. Al posto di queste piazze deserte, immagini strade invase dai manifestanti. In luogo di questa incapacità di vedere gli operai anche dove ci sono, il motto era “siamo tutti operai” e si vedevano operai anche dove non c’erano. Tanto che, all’epoca, coloro che più avevano l’ambizione d’essere operai erano gli studenti del Sessantotto. L’autunno caldo venne segnato dalla grande manifestazione dei metalmeccanici a Roma, con tre grandi cortei che inondarono la Capitale, e il tema chiave era la cosiddetta centralità di fabbrica.
Carniti fu uno dei teorici, in quegli anni, dell’idea di cambiamento radicale del sindacato.
All’epoca le fabbriche erano un conglomerato di conflitti, con enorme partecipazione e democrazia interna che si traduceva in assemblea, dove si decidevano le piattaforme, le forme di lotta e l’accettabilità degli accordi. Così, nel 1969 il “sindacato dei consigli” era la combinazione di questo spontaneismo con l’idea di riforma del soggetto sindacato. Carniti fu il teorico dell’unità sindacale, non come appello ereditato dalla storia, ma come pratica sociale condivisa.
Un’unità sindacale che si tradusse nell’esperienza della FLM, la Federazione lavoratori metalmeccanici in cui si unirono agli inizi degli anni settanta la Fiom, la Fim e la Uilm.
L’intuizione di Carniti prendeva piede dall’idea di unità della compagine lavorativa, riprendendo l’esperienza consigliare degli anni Venti. Tant’è vero che si introdussero le nuove strutture dei consigli di fabbrica, in cui il delegato di reparto veniva eletto su scheda bianca: tutti erano elettori e tutti erano eleggibili, iscritti e non iscritti ai sindacati, e a Mirafiori nella stragrande maggioranza vennero eletti operai non iscritti ad alcuna sigla. Il principio di fondo era l’unità di tutti i lavoratori, che costituivano una soggettività di cui il sindacato era espressione, dunque doveva essere unitario. In questa ricostruzione è evidente in Carniti l’influenza cattolica, mai manifestata in modo evidente ma sempre presente in lui.
Fu un sindacalista anomalo anche nel panorama della Cisl?
Carniti veniva dalla grande scuola sindacale di Firenze, in cui si formò tutta la generazione di leader degli anni settanta: era la Cisl della cooperazione in azienda e delle “human relations”, che importava il modello americano. Lui maturò un piglio così radicalmente innovatore da diventare il vero e proprio inventore della Fim Cisl milanese, una sigla che albergava nel mondo ambrosiano del Concilio Vaticano Secondo e attingeva dai fermenti del mondo cattolico, scegliendo la collocazione di questi fermenti nella lotta di classe e in un sindacato che rompesse con la tradizione cislina. La Cisl dell’epoca, infatti, si distingueva per il suo rapporto col governo, per l’idea dell’accordo ad ogni costo, delle buone relazioni industriali e del rapporto col governo. Ecco, Carniti produsse un sindacato conflittuale e partecipativo, che poi venne portato nella Fim nazionale e poi nella FLM.
L’esperienza unitaria, tuttavia, si chiuse in modo conflittuale nel 1984, con il decreto di San Valentino.
La vicenda del taglio di 4 punti della scala mobile è complessa e prende origine a fine degli anni settanta, con la svolta dell’Eur (la conferenza delle sigle sindacali che si tenne all’Eur nel febbraio 1978 ndr)in cui il sindacalismo confederale entra nella logica dello scambio, del cedere una parte di potere contrattuale per ottenere in cambio occupazione. Carniti è protagonista di questo, ma non ho mai capito fino in fondo la sua scelta.
Che spiegazione si è dato della scelta di Carniti di spostare la Cisl sulla linea del governo Craxi?
Io credo che lui giustificasse la scelta con l’idea che la svolta dell’Eur e il taglio della scala mobile fossero due stati di eccezione, da attraversare per poi riprendere il cammino. Una scelta, quella della logica dello scambio, che in Luciano Lama era del tutto prevedibile perchè rientrava nella storia della Cgil, ma che per l’autonomistico Carniti è più difficile da comprendere. Per questo non ho mai capito fino in fondo la sua decisione.
Fu un errore?
Io credo che sia stato un errore enorme del sindacalismo tutto, con la prima affermazione di una linea decisionista, l’esatto contrario del sindacato dei consigli. La successiva resistenza della Cgil, che strappò proprio sul decreto di San Valentino, ci fu, ma fu inadeguata e il taglio della scala mobile con l’accordo di Uil e Cisl fu la vittoria tattica del governo Craxi, che così però consumò la sua fine strategica.
Lei l’ha definito anomalo: un sindacalista come Carniti sarebbe immaginabile nel mondo d’oggi?
In un eremo, forse. È questa una delle ragioni della mestizia per la scomparsa, al di là di quelle personali d’affetto: il sindacalismo di Carniti è una storia finita, perchè non esiste più un’idea di passaggio del testimone tra dirigenti.
Ma le sue battaglie sarebbero ancora attuali?
Certo, e le sue ragioni torneranno a farsi valere nelle esperienze dei riders, o dei giovani disoccupati, oppure ancora dei lavoratori in cassa integrazione. Di Pierre Carniti si ricomincerà a parlare quando ricomincerà il conflitto. Per dirla con Walter Benjamin: ci sarà una “rammemorazione”, rivivranno – cioè – le ragioni per cui lui è esistito.
*Il Manifesto 07/06/2018