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Un modello aziendalistico-autoritario? Non passerà

L’approvazione della legge 107/2015 è l’esito di un percorso complesso iniziato nel settembre del 2014 con la presentazione di un progetto governativo incardinato su tre assi ed una premessa. 

La premessa riguardava la formalizzazione del carattere non più esclusivamente pubblico della scuola italiana: le risorse pubbliche, veniva scritto, non sono più sufficiente a soddisfare i bisogni organizzativi delle istituzioni scolastiche, e su questo appunto iniziale si dispiegava una variegata gamma di possibilità di “co-finanziamento” da parte di soggetti privati (individuali o aziendali). 

Tale premessa viene assunta nella legge, la quale conserva pur con alcuni cambiamenti, gli assi tematici iniziali: piano occupazionale, la funzione manageriale del dirigente scolastico, l’applicazione della logica dello scambio nella determinazione del merito. 

 

a. Piano occupazionale.

Sin dalle prime proposte il piano del governo ha l’ambizione di promuovere la stabilizzazione di circa 54.000 lavoratrici e lavoratori, con funzione docente, che svolgevano supplenze annuali, individuati tra coloro che facevano parte di graduatorie (ad esaurimento) e tra quanti hanno superato il concorso pubblico del 2012. A questi si aggiungono circa 48.000 lavoratrici e lavoratori, anche qui tra i docenti, individuati nelle GAE (graduatorie ad esaurimento) che vanno ad alimentare un organico aggiuntivo, o “organico potenziato”. 

Diversi sono i problemi, ancora oggi aperti e riguardano i contrasti tra coloro che pur in presenza di abilitazioni non fanno parte delle GAE; contrasti che sono tuttora oggetto di vertenze legali. Ma soprattutto pesa sul provvedimento di assunzioni la norma che prevede che se allo scadere dei 36 mesi dall’approvazione della norma coloro che sono collocati nelle graduatorie non dovessero essere “immessi in ruolo” (ovvero assunti a tempo indeterminato) non possono più avere supplenze, in quanto questo va a confliggere con la sentenza della Corte di giustizia europea che, su richiesta della FLC CGIL, aveva espresso un parere vincolante relativo alla illegittimità di una proproga di contratti precari oltre 36 per la stessa prestazione di lavoro. 

Una sentenza che interveniva al fine di evitare l’utilizzo strumentale dei contratti a tempo determinato. Il governo recepisce questa sentenza in modo restrittivo; si rifiuta infatti di prendere in considerazione un piano pluriennale di assunzioni, come avevano suggerito unitariamente le organizzazioni sindacali del comparto, il quale avrebbe determinato l’assorbimento della precarietà ed evitato il proliferare di ricorrenti vertenze legali, oltre che intervenire sulle prospettive di una popolazione lavorativa esposta da anni all’incertezza occupazionale e di reddito e che coinvolge il 25-30% dell’intero organico scolastico. Tale norma è oggetto di una vertenza legale unitaria nazionale.

 

b. La funzione manageriale del dirigente

Con la legge 107/2015 il ruolo del dirigente subisce un’ ulteriore variazione professionale data dalla trasformazione del suo ruolo. Un ruolo di indirizzo didattico già intaccato dal Dlgs 150/2009 (decreto Brunetta) che aveva enfatizzato una funzione disciplinare più che direttiva. 

Con la nuova legge il dirigente scolastico, oltre a condizionare il ruolo del collegio docenti – sede decisionale collettiva dell’offerta formativa della scuola e della elaborazione didattico-pedagogica – assume un ruolo di regolazione del rapporto di lavoro in ordine a due nuovi e destrutturanti poteri: ha la possibilità di “chiamare” i docenti da ambiti territoriali senza rispettare una graduatoria di merito. La graduatoria è stata l’argine nel processo di reclutamento rispetto a involuzioni e distorsioni clientlari nell’ambito del lavoro pubblico interno all’istruzione pubblica. 

I docenti appartenenti agli ambiti territoriali (ambiti in via di definizione su scala subprovinciale, composti da docenti neoimmessi in ruolo e da quelli già in ruolo che però chiederanno il prossimo anno trasferimento o assegnazione provvisoria) presenteranno alle scuole afferenti a ciascun ambito un curriculum e verranno “selezionati” in base alle loro competenze dal dirigente, senza alcun vincolo o istituto regolativo di tipo contrattuale. L’assenza di una rete di protezione e di tutela lascia spazio all’unilateralità discrezionale di tale scelta ed espone la singola lavoratrice ed il singolo lavoratore al rischio di forti discriminazioni, derivanti non dalla debolezza delle competenze, ma dal possesso di un “capitale sociale” extradisciplinare (appartenenza a lobby, interessi personali, ecc.). 

In secondo luogo, il dirigente scolastico è chiamato a sostenere (art.1, comma 129) un “comitato di valutazione” il cui compito è quello di definire criteri per l’individuazione dei docenti “meritevoli”, e sulla base di tali criteri erogare un “bonus”, definito anche salario accessorio, che il Miur ha stanziato nella cifra di 200 milioni. Questo passaggio costituisce il ponte tematico rispetto al terzo asse della legge 107/2015. A questo proposito va ricordato che il bonus viene anche definito nel testo di legge “compenso accessorio”, il quale deve essere oggetto di contrattazione sindacale (Dlgs 150/09).

 

c. La professionalità docente: dalla comunità educante al soggetto-impresa.

Il comitato di valutazione risulta composto dal dirigente scolastico, da due docenti nominati dal collegio docenti, da un docente nominato dal consiglio di istituto, da due genitori, o da un genitore e uno studente nel caso della scuola secondaria, ed infine da un rappresentante del MIUR nominato dall’ufficio scolastico regionale. Ha il compito di individuare i criteri di riconoscimento delle professionalità eccellenti, ideologicamente definita “merito”, attraverso l’instaurazione di un dispositivo disciplinare, inteso come meccanismo di controllo sociale articolato secondo il più tradizionale indirizzo economicistico, riconducibile alla formula della customer satisfaction. 

Ma andiamo per ordine. Tra i criteri definiti troviamo oltre a generici richiami all’innovazione didattica e all’impegno organizzativo, anche la tematica insidiosa del “successo formativo degli alunni”. Un tema che sembra rafforzare una sensibilità progressista, ma che invece veicola una modalità classista di problematizzazione del successo formativo in una società diseguale. 

Vi sono scuole nell’area torinese, ma si può generalizzare a livello nazionale, dove il successo formativo di alcuni alunni non consiste nell’apprendimento dei fondamenti di alcune aree disciplinari; in alcune realtà esposte a flussi migratori, caratterizzate da un processo di proletarizzazione del tessuto sociale, da fenomeni di esclusione e marginalizzazione sociale, il successo formativo, come sanno molti insegnanti, si ferma al fatto che per alcuni alunni il successo formativo si riduce alla continuità della loro presenza a scuola. Questo esempio assume una configurazione estesa se consideriamo gli alunni con bisogni educativi speciali, con criticità non certificati ma pur presenti, con condizioni di diversabilità che rappresentano un impegno aggiuntivo ed un investimento formativo collettivo dell’intera comunità scolastica.

 Nella legge è presenta una delega sul tema del sostegno alla diversabilità, dove pesano ipotesi di un ritorno ad una logica di “medicalizzazione” attraverso percorsi separati di apprendimento. Così come è fonte di preoccupazione il passaggio sull’alternanza scuola lavoro che non solo risulta di difficile applicazione (annualmente 400 ore negli istituti tecnici, 200 ore nei licei) ma rischia di subordinare l’indirizzo educativo alle esigenze dell’impresa.

In contesti di “vita offesa”, caratterizzati da forti disuguaglianze sociali, riconducibili non solo alle più generali disparità di classe, ma anche a forme di impoverimento culturale, la legge 107/2015 interviene con un progetto che, anziché rafforzare la collegialità, la cooperazione, quella motivazione alla costruzione intersoggettiva di una progettualità finalizzata al successo formativo di tutti gli allievi a partire dalle loro differenze, introduce un dispositivo concorrenziale di competizione individuale. La competizione tra gli insegnanti, per utilizzare una espressione di un parlamentare del PD (sostenitore territoriale della legge), si deve estendere nel territorio nella forma di una competizione tra gli istituti, secondo il principio liberista della competizione di mercato quale forza motrice di un processo di modernizzazione ed innovazione organizzativa. 

Assistiamo qui al nodo centrale del cambiamento di paradigma; un paradigma che si trova incardinato sulla generalizzazione della logica di scambio che investe i processi educativi, suscettibili di una regolazione che non può prescindere dalla trasformazione in merce del rapporto educativo (quindi del patto formativo), e dallo smantellamento della dimensione comunitaria che aveva nella soggettività dei lavoratori il supporto ad una logica educativa cooperativa. La soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori cessa di essere una zona franca dagli imperativi economici, cessa di essere interpretazione dei bisogni differenziati, cessa di essere libertà di un insegnamento intrecciata alle esperienze di dipartimento, di gruppo, di area disciplinare e si configura come ricerca individuale di una premialità in competizione con altre soggettività con cui prima si era instaurata una pratica di condivisione.

La trasformazione dell’insegnamento in merce comporta che l’attività didattica risponda a criteri di valutazione che guardano ai processi educativi come a qualcosa di misurabile in base a criteri di soddisfazione del cliente e a criteri di natura economica. Trattandosi di un lavoro immateriale – quindi non suscettibile di una valutazione basata sullo scambio di grandezze certe – la professionalità docente è sottoposta ad un processo di autocollocazione premiale in una competizione individuale, a svantaggio di una soggettività libera da condizionamenti economici. 

La mercificazione del lavoro educativo e la relativa espropriazione di una soggettività cooperativa non costituiscono le finalità del dispositivo di natura aziendalistica. Sono piuttosto i vettori di un disegno che vuole affermare, a partire dalla professionalità docente, l’egemonia culturale neoliberista in ambito pubblico di un “soggetto competitivo”, incardinato sul criterio dell’efficienza economica e della competizione generalizzata con i colleghi (da cui deriva il depotenziamento delle pratiche cooperative e collegiali, già ampiamente indebolite negli anni), al fine di configurare un nuovo status lavorativo: il lavoratore come soggetto-impresa, terreno di sperimentazione per tutto il pubblico impiego di una restaurazione decontrattualizzata della prestazione di lavoro

La centralità del mercato nella costituzione dell’offerta formativa agisce come leva per una oggettivazione costrittiva. Le preferenze del mercato presentate come naturali ed oggettive, apparentemente sganciate da ogni sistema valoriale, forniscono la base di legittimazione per un nuovo assetto di potere nei luoghi di lavoro, privo di reali controbilanciamenti. 

L’individualizzazione della prestazione è funzionale ad una sorta di economia psichica dell’internalizzazione della logica aziendale; qui l’ideologia del merito costituisce l’espressione egemonica di una catena di significati che sorreggono in modo latente la semiotica del potere nei processi educativi. L’assegnazione di 500 euro ad personam per supportare percorsi individuali di autoformazione risponde a questa cornice logica organizzativa e culturale.

L’incorporazione della logica aziendale rende superflua, nella narrazione neoliberista, lo strumento del contratto di lavoro che si rivela residuale rispetto alla concorrenza dell’insegnante quale microimpresa individuale

 

d. Il contratto di lavoro dispositivo di equità e di innovazione organizzativa. 

Nella prospettiva sostenuta ed elaborata da M. D’Antona il processo di contrattualizzazione del lavoro pubblico rispondeva non solo ad un indirizzo generale di politica dei redditi, aperta dal protocollo del 23 luglio 1993, ma guardava alla contrattazione come ad un istituto che non risolveva la sua funzione nella sua attività di tipo redistributivo, ma costituiva l’architrave di una concezione innovativa; era questo l’indirizzo che presiedeva il Dlgs 29/1993. Il contratto e la contrattazione nei luoghi di lavoro avrebbero potuto svolgere un ruolo di innovazione organizzativa; introduceva elementi di trasparenza e controbilanciamento dei poteri direttivi con ricadute sull’efficienza del sistema e sulla condizione di lavoro.

Nel comparto scuola, più specificatamente, l’attività contrattuale è stato un elemento di equità e di trasparenza nella regolazione della prestazione di lavoro. Ma il processo di rilegificazione del rapporto di impiego pubblico viene solo riaffermato e rinforzato con la legge 107/2015, dopo essere stato avviato dal dlgs150/2009. E’ in questo quadro che la legge 107/2015 ribadisce in modo perentorio l’irreversibilità di tale processo quando afferma che tutta la normativa, compresa quella presente nel contratto collettivo nazionale di lavoro (attualmente in vigore), in contrasto con la legge stessa perde di efficacia e legittimità. Tra le deleghe contenute nella legge 107 troviamo quella che si propone la ridefinizione del “testo unico” (Dlgs 297/94) e va nella direzione di rafforzare questo generale indirizzo.

La legge 107/2015 contrasta con normative vigenti in materia di autonomia scolastica (Dpr 275/99), di funzionamento didattico (Dlgs 297/94), di prerogativa contrattuale (testo contrattuale e Dlgs 150/09). E’ nella contraddizione normativa che si dispiega l’azione di neutralizzazione proposta dalle organizzazioni sindacali.  

 

e. Il rinnovo del contratto e la lotta nei luoghi di lavoro.  

Sin dal progetto presentato nel settembre del 2014 l’azione sindacale nella provincia di Torino, e così nelle altre realtà italiane, è stata – almeno per la FLC CGIL territoriale – un lavoro di informazione e contrasto alla cultura che presiede l’impianto del disegno governativo. La costituzione di un Coordinamento metropolitano per una scuola libera e pubblica è stato sin dallo scorso anno il luogo di discussione di diversi soggetti (delegati sindacali, associazioni professionali e comitati della scuola), accomunati dalla critica alla proposta e dall’impegno a fornire strumenti di analisi non solo all’interno del mondo del lavoro della scuola ma anche all’esterno. 

Lo sciopero generale del 5 maggio (A Torino un iniziale presidio ha dato origine a una manifestazione per le vie della città di oltre diecimila tra lavoratrici, lavoratori e studenti) ha determinato una convergenza unitaria che ha coinvolto le diverse culture e sensibilità del sindacalismo scolastico. 

L’approvazione della legge 107 ha tuttavia imposto un arretramento alla mobilitazione che tuttavia ha continuato a svilupparsi nei luoghi di lavoro. Con una ricostruzione analitica possiamo definire alcuni punti che oggi caratterizzano la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola, a partire dalle 300 assemblee svolte a livello unitario nelle scuole torinesi dal mese di settembre ad oggi.

In primo luogo, è consistente la diffidenza e la critica che proviene dal mondo della scuola alla legge non solo per quanto concerne gli aspetti legati alla valutazione ma anche all’intreccio di interventi e provvedimenti che peggiorano la già profonda sofferenza delle istituzioni scolastiche derivanti dalle riduzioni di risorse degli anni precedenti ma anche dalla legge di stabilità del 2014. 

Una sofferenza che investe il personale non docente, fortemente ridotto a seguito dei tagli all’organico del 2014, il quale non compare nella legge e si prevede sia oggetto di esternalizzazione successiva. Ma investe anche il personale a tempo determinato che si trova fortemente frammentato ed indebolito con rischi di involuzione corporativa tali da generare, come già accaduto in questi anni, una conflittualità tra gruppi di lavoratrici e lavoratori precari per l’accesso alle opportunità di stabilizzazione. Questo approccio fortemente critico proveniente dai luoghi di lavoro non è seguito, in egual misura, da una disponibilità altrettanto decisa alla mobilitazione; è presente uno scoramento che riguarda la fiducia nelle istituzioni, ritenute responsabili di quel processo di svalutazione del lavoro educativo che ha intaccato nel complesso la funzione sociale della scuola pubblica. 

Non è più sufficiente la lotta del comparto scuola; l’unione con altri lavoratori del comparto pubblico sul tema dei diritti e del contratto può riconsegnare al mondo della scuola quella prospettiva di lotta che l’approvazione della legge, all’indomani del più grande sciopero nella storia del sindacalismo scolastico, aveva intaccato nelle sue fondamenta motivazionali. 

In secondo luogo, va contrastato il luogo comune presente nell’opinione pubblica circa l’indisponibilità dei lavoratori della scuola ad una valutazione del lavoro svolto. A livello unitario è stato redatto un Manifesto per la scuola pubblica e democratica da diffondere nei luoghi di lavoro extrascolastici; un documento che evidenzia le nostre ragioni e propone una distinzione, imprescindibile, tra una valutazione di tipo autoritario e la valorizzazione della professionalità incardinata su regole contenute nel contratto nazionale di lavoro.

 Anche per questa ragione la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola è una lotta di frontiera, rispetto ad un indirizzo che tende alla de-contrattualizzazione della prestazione di lavoro attraverso un allargamento delle prerogative manageriali, e nel comparto pubblico ad un progetto di rilegificazione del rapporto di lavoro. Il contratto nazionale deve tornare ad essere una autorità salariale e deve contenere regole attraverso le quali ciascun lavoro lavoratore in base al proprio “inquadramento” fa riferimento a criteri certi, condivisi e normati dal testo contrattuale rispetto alla sua traiettoria professionale e retributiva. Soprattutto la professionalità non può essere riconosciuta e retribuita in una logica competitiva, ma deve inscriversi nel mantenimento/rafforzamento di una prassi collegiale e cooperativa, precondizione di processi educativi democratici e inclusivi. 

Infine, il 98% delle scuole torinesi ha respinto il progetto del comitato di valutazione per il riconoscimento dei docenti meritevoli. Questo indirizzo promosso dalle organizzazioni sindacali unitariamente, con le delibere presentate ai collegi docenti, si propone di neutralizzare il dispositivo aziendalistico-autoritario della legge e costituisce la premessa per una mobilitazione che non si può ricondurre, come emerge dal “discorso pubblico” del governo, al mantenimento di privilegi o a richieste salariali (ampiamente disattese dalle recenti proposte di rinnovamento della parte economica) insostenibili. 

Questo passaggio fa da ponte ad una prospettiva di modernizzazione che procede nel tracciato della scuola della Costituzione e si oppone con il necessario radicalismo ad una regressione classista che, occultata dall’ideologia del mercato, guarda ai processi educativi come a processi selettivi finalizzati a rafforzare, anziché constrastare, le disuguaglianze sociali.

La posta in gioco del movimento di lotta nella scuola fa emergere una problematica che parla a tutti ed unifica la classe lavoratrice nel suo complesso. Attiene alla libertà nei luoghi di lavoro (qui principalmente espressa nella libertà contrattuale e nella libertà di insegnamento) e solleva il tema della riappropriazione di poteri decisionali nell’organizzazione del lavoro; quel legame tra lavoro e libertà che, come ricordava Bruno Trentin, necessita di essere costantemente interpretato e rappresentato e che costituisce il fondamento del ruolo di modernizzazione sociale e culturale svolto dal movimento organizzato dei lavoratori.  

 

 

 (*) Segretario Generale FLC CGIL Torino

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