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Whatever It Takes 

Le recessioni di solito prendono di sorpresa; nell’ultimo anno invece ha preso di sorpresa il fatto che una recessione negli Stati Uniti non si sia vista. O, almeno, non ancora. Alla fine del 2022 il canale di news americano Cnbc spiegava “perché tutti pensano che sia in arrivo”. Di questi tempi l’anno scorso Goldman Sachs dava al 25% le probabilità di un evento del genere entro la fine del 2023, i tassi di mercato lo indicavano ben oltre il 50%, mentre i super-consulenti del Conference Board all’inizio scrivevano: “La crescita del prodotto interno lordo (negli Stati Uniti) entrerà in contrazione nel secondo trimestre e ci resterà per tre trimestri di seguito”. Quanto al Fondo monetario internazionale, nel gennaio del 2023 prevedeva nell’anno una crescita americana appena all’1,4%. Risultato: alla fine del quarto trimestre del 2023 l’economia americana era del 3,1% più grande di un anno prima. Dov’è l’ingrediente segreto? E per caso racchiude delle lezioni anche per noi, in Italia e in Europa?

I tre milioni di immigrati dietro il boom degli Usa E il nuovo “sorpasso” della Spagna sull’Italia

Una risposta esaustiva richiederebbe anni di studio, non una newsletter settimanale. Qui intendo occuparmi solo di uno dei fattori della crescita, ma quello che di recente ha preso più in contropiede gli analisti pubblici e privati: il mercato del lavoro, cioè le donne e gli uomini che lo fanno vivere. Prima della pandemia, i dati della Social Security Administration e del Congressional Budget Office (l’equivalente a Washington, più robusto, dell’Ufficio parlamentare di bilancio) portavano a concludere che l’America, nel 2023 e nel 2024, non sarebbe riuscita a far posto in maniera sostenibile a oltre centomila nuovi occupati circa netti in più al mese. Al di sopra di quei livelli, in un’economia vicina alla piena occupazione, la caccia delle imprese a sempre nuova manodopera avrebbe portato i datori di lavoro ad offrire salari sempre più alti; avrebbe dunque spinto l’inflazione al punto che la Federal Reserve avrebbe alzato i tassi d’interesse ancora di più per domare la dinamica dei prezzi; e il Paese sarebbe finito in recessione. In altri termini, sembrava che la Fed dovesse generare disoccupazione tramite una brusca frenata dell’economia, per riportare gli aumenti dei listini sotto controllo.  

Questa era la teoria. Era anche ciò di cui si discuteva un anno fa. Nella pratica invece la Fed ha davvero imposto la sua stretta monetaria, la più ripida da decenni; eppure l’occupazione ha continuato a crescere di due volte e mezzo più veloce al suo presunto “limite di velocità” (255 mila occupati in più al mese in media nel 2023); la dinamica dei salari stranamente è rimasta tutto sommato sotto controllo; e ora il consenso degli analisti vede l’inflazione appena al 2,5% in media per quest’anno, secondo gli ultimi dati dell’Economist. Insomma, un ingrediente dev’essere completamente sfuggito all’osservazione, ma ha cambiato tutto: ha alimentato il mercato del lavoro e la crescita ed ha aiutato a controllare l’inflazione. E’ stato il grande segreto degli Stati Uniti nel 2023.

E’ un ingrediente di cui è maleducato parlare, nella feroce campagna elettorale di questi mesi: l’immigrazione (vedi grafico qui sopra). E’ stata la grande sorpresa dell’economia negli ultimi dodici mesi, più dell’impatto dell’intelligenza artificiale o dei maxi sussidi dell’Inflation Reduction Act. Una ricetta antica eppure potente. Il flusso della nuova immigrazione netta negli Stati Uniti è  stata di gran lunga il più forte almeno degli ultimi vent’anni, soprattutto quella dei “non autorizzati” (noi li chiamiamo “clandestini”) che attraversano il confine con il Messico e poi in qualche modo finiscono per integrarsi regolarmente nel grande motore dell’economia americana. Uno studio del mese scorso di Wendy Edelberg e Tara Watson per la Brookings Institution mostra quanto profonda sia stata questa sorpresa e la spinta che ne è derivata. Il Census Bureau, un’agenzia governativa, prevedeva che fra metà 2022 e metà 2023 ci sarebbero stati circa 1,1 milioni di nuovi immigrati (al netto di coloro che avrebbero lasciato il Paese). Sembrava ragionevole, perché sarebbe stato un afflusso in linea con le medie dall’inizio del secolo. Invece il Congressional Budget Office a gennaio scorso ha presentato, a cose fatte, una stima tre volte più alta: l’anno scorso sono entrati in America, al netto di chi è uscito, 3,3 milioni di migranti in più (il dato di Goldman Sachs nel grafico sopra dà un valore lievemente più basso a 2,5 milioni, ma sempre due volte e mezzo sopra le medie recenti). In parte importante sono persone nel fiore dell’età e nel pieno delle forze provenienti dal Sudamerica, dall’America centrale o dal Messico, che spesso vengono fermati nel deserto senza documenti dallo US Border Patrol, ma alla fine riescono a restare legalmente negli Stati Uniti. E a lavorare. Sono loro che hanno permesso al mercato del lavoro di espandersi e all’occupazione di crescere senza che il motore andasse fuori giri e l’inflazione esplodesse. Sono loro, in buona parte, che hanno fatto proseguire l’attuale fase di crescita americana evitando la recessione: nessuno aveva messo in conto un anno fa che gli immigrati sarebbero stati tre volte più del solito. 

Edelberg e Watson stimano che l’aumento degli stranieri porta venti miliardi di dollari di consumi in più nel 2022, 46 miliardi in più nel 2023 e 76 quest’anno. Poi c’è l’effetto indiretto, ancora più potente: più persone che vivono nel Paese hanno bisogno di più spazio e più strumenti nelle imprese per permettere loro di lavorare; hanno bisogno che ci siano più scuole e che si assumano più insegnanti per educare i loro figli; hanno bisogno di più case da costruire per dar loro un tetto sulla testa, e così via. L’impatto sull’economia è vasto e a cascata. Dell’immigrazione è prudente non parlare mentre Donald Trump e Joe Biden lottano per la Casa Bianca attorno al tema del confine con il Messico. Ma tutti capiscono che il segreto americano del 2023 è, in buona parte, lì.

E noi che c’entriamo? C’entriamo, eccome. Avete confrontato i dati dell’Italia e della Spagna, recentemente? Alla fine del quarto trimestre del 2023 l’economia italiana era appena dello 0,6% sopra il livello di un anno prima (sempre secondo l’Economist), mentre quella iberica era del 2% sopra. Eppure il governo di Madrid aveva del tutto evitato di bruciare denaro pubblico nel fuoco di paglia dei bonus ed aveva un deficit di (molto) meno della metà del nostro, in proporzione al prodotto lordo. La ragione della migliore performance iberica dev’essere dunque altrove, per esempio nella dinamica diversa della popolazione residente. Dal 2017 in Spagna il numero degli abitanti è aumentato del 2%, cioè di circa un milione di persone; in Italia invece è diminuito esattamente di altrettanto, del 2%, cioè di circa 1,2 milioni di persone. 

Non è la forbice che ci si aspetterebbe. Entrambi i Paesi dell’Europa del Sud vivono infatti una profonda crisi demografica e quella spagnola è anche più grave: nel 2022 appena 1,16 figli per donna per gli iberici, persino meno dei 1,24 figli per donna registrati in Italia. Se però la popolazione in Spagna continua ad aumentare mentre in Italia scende, è perché la prima sta integrando molti più stranieri nella sua economia e – come negli Stati Uniti – lo si vede benissimo nei tassi di crescita. Il 28 febbraio scorso il quotidiano francese “Les Echos” ha scritto che dei 4,9 milioni di posti di lavoro creati nell’Unione europea negli ultimi quattro anni, 3,8 milioni sono stati coperti da persone nate fuori dall’Unione europea stessa. Senza di loro, saremmo andati a sbattere molto prima con i nostri limiti. Non ci sarebbero state materialmente le persone in Europa per produrre i beni e i servizi che ci hanno tirato fuori dalla profonda recessione pandemica. 

Quanto a questo, è il caso di capire cosa sta accadendo in Italia. Dal 2018 l’economia ha creato 621 mila posti di lavoro in più ed è senz’altro una notizia molto positiva. Poi però servono le persone per svolgere queste nuove mansioni. E qui il quadro è diverso. Secondo l’Istat le “forze di lavoro” – cioè il totale degli occupati, più coloro che potenzialmente potrebbero lavorare – dal 2018 al 2023 non hanno fatto che diminuire. Sono diminuiti gli italiani, di circa centomila persone (a 22,8 milioni); ma sorprendentemente sono diminuiti fra le “forze di lavoro” anche gli stranieri, di 40 mila persone (a 2,67 milioni). In parte ciò si spiega con il fatto che alcuni stranieri nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza italiana. Ma la sostanza è innegabile: stiamo seguendo un cammino diverso da quello degli Stati Uniti e della Spagna, come si vede dai ritmi di crescita di nuovo depressi. 

Voglio dire con questo che dobbiamo aprirci per forza a una maggiore immigrazione? No. Queste sono scelte che spettano liberamente agli elettori: hanno diritto di preferire meno stranieri, anche a costo di avere meno crescita. Ma in un’economia matura e demograficamente declinante è difficile volere l’una e l’altra cosa insieme: una relativa chiusura agli immigrati – in confronto ad altri Paesi – eppure tassi di crescita elevati. E’ difficile volerlo, soprattutto, se intanto non si fa nulla per rendere il sistema-Paese più efficiente. La newsletter Eurointelligence ha scritto tempo fa: “E’ incoerente sul piano logico per i partiti conservatori e di destra chiedere di fermare l’immigrazione, senza offrire alcuna soluzione riguardo alla produttività. E’ come avere una forza inarrestabile che va a sbattere contro un obiettivo irremovibile”. Basta saperlo. 

* da Corriere della sera.it, 08/04/2024

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