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Part-time, disuguaglianza nella riduzione del tempo di lavoro

Produzione in calo e occupazione in crescita. Da alcuni mesi stiamo assistendo a questo disallineamento statistico, che può diventare paradigma illogico. Una ragione ci deve essere. Anzi, sono parecchi i motivi che concorrono a comporre il mosaico paradossale. Venirne a capo è utile per comprendere se sono apprezzabili le euforie espresse da più parti politiche (in particolare quelle del precedente Governo) o vanno condivisi i malumori, sia pure diversificati, che salgono dal sistema delle imprese e dai sindacati confederali. 

La produzione industriale ed in parte quella dei servizi privati e pubblici stanno decrescendo lentamente. Ci stiamo adagiando su quota zero, rispetto all’anno scorso. Se la Germania non decide di dare una spinta alla sua economia, anch’essa languente, il passaggio dalla stagnazione alla recessione è inevitabile per l’Italia. Di questo sembra che ci sia consapevolezza nella nuova Commissione Europea e quindi è bene non fasciarsi la testa prima di capire come finirà questo 2019. 

Essendo prevalso l’attendismo, l’occupazione non ne ha risentito in modo lineare rispetto alla produzione. Con questa che si è attestata sullo 0,7% rispetto all’anno scorso, gli occupati dipendenti sono in crescita dell’1% nel settore privato. In termini assoluti, significano 130.000 in più. Ma la Cassa Integrazione – che non cancella lo stato di occupato per chi ne viene colpito – ha ripreso a correre, molte aziende stanno lanciando allarmi anticipatori e soprattutto le ore lavorate sono ancora al di sotto di quelle di inizio crisi del 2008. Un pacchetto di indicatori che stanno per spalancare le porte di una nuova fase di difficoltà per il futuro dell’occupazione.

A fianco a questi eventi congiunturali si sta consolidando un fenomeno strutturale. L’occupazione regge perché circa 4,5 milioni di persone lavorano a part-time, cosiddetto involontario. Quasi il 20% dell’occupazione dipendente vive di orario ridotto e salario ridotto. In questo c’è la spiegazione più robusta del paradosso. Un fenomeno allarmante, a ben vedere. Da un lato, c’è una stortura dell’originaria natura del part-time: scelta volontaria legata ad esigenze proprie della persona; prevalentemente a scadenza temporale predefinita tra le parti; organizzativamente legata a nicchie lavorative presenti in azienda.

Dall’altro lato, c’è un impoverimento serio e di lungo periodo di una quota non secondaria della popolazione lavorativa. Troppa gente sta mangiando una minestra imposta, con costi collaterali più pesanti (trasferimenti casa-lavoro, flessibilità nei turni, ecc.) che incidono sul reddito netto. Probabilmente, una quota di queste persone ha altri lavori part-time o lavori in nero. Ma il grosso è vittima di una redistribuzione del lavoro niente affatto corrispondente a quello che hanno sempre auspicato i cultori della riduzione dell’orario di lavoro. 

Ovviamente, il fenomeno non si è esteso per malvagità imprenditoriale. Ci sarà certamente chi ha visto nella diffusione di questa forma contrattuale un ottimo modo per accrescere lo sfruttamento della persona (ti pago metà in chiaro e metà in nero). Nel terziario, maggiormente che nel secondario, è più facile forzare la mano a lavoratori con scarso potere contrattuale e modesta tutela sindacale. Ma sono la struttura dell’apparato produttivo e l’innovazione tecnologica che hanno facilitato la metamorfosi. 

Infatti, le grandi aziende si destrutturano; si diffondono le piccole e piccolissime aziende sia nei comparti tradizionali che in quelli innovativi; si polarizzano le professionalità verso il basso ma anche verso l’alto; le organizzazioni del lavoro moderno spesso richiedono orari più lunghi e più articolati, governabili con più efficacia, spezzettando i tempi di lavoro sia individuali che tra le persone.

La questione che si apre, dunque, non riguarda più tanto la diatriba tra lavoro a tempo indeterminato e lavoro a tempo determinato. Il decreto dignità del Governo giallo-verde ha prodotto quello che tutti potevano già prevedere: meno occupati a tempo determinato e più partite IVA, mentre la crescita di quelli a tempo indeterminato, grosso modo, sono conseguenza dell’aumento del part-time. La questione è se e fino a che punto si debba assistere alla diffusione del fenomeno del lavoro a metà tempo o non sia giunto il momento di aprire una grande discussione sulla redistribuzione del tempo di lavoro, anche non a parità di salario (sempre nei limiti della sopportabilità  per i singoli), che riguardi tutti i lavoratori. 

Le condizioni e le modalità per realizzare una prospettiva di questo genere rappresentano pane quotidiano di chi contratta in azienda l’eventuale applicazione della riduzione dell’orario di lavoro. Non ci può essere, come si discuteva in passato, una regola fissa per tutti. Ma a monte ci deve essere appunto un’opzione vera di governo della “buona” redistribuzione del tempo di lavoro. In assenza di ciò, l’eventuale incremento della produttività resterà appannaggio dell’azienda che resterà “sovrana” nel giostrare al meglio il mix tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale. E la frammentazione del mondo del lavoro proseguirà inesorabilmente.

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