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Il sistema contrattuale, un acquedotto vuoto

Sembra che dopo tante false partenze il 2015 possa costituire un anno di svolta. I recenti dati dell’ISTAT indicano segnali di ripresa espressi da una crescita di fiducia dei consumatori e degli imprenditori e una inversione di tendenza a favore di nuova occupazione.

Segnali che potrebbero rafforzarsi in corso d’anno in presenza dell’espansione monetaria della BCE, del più favorevole rapporto euro-dollaro e della minore bolletta petrolifera. 

Ma non sarà un’alta marea che solleverà tutte le barche. Andrà a vantaggio delle imprese che  sapranno inserirsi nel ciclo economico che si apre costruendo un vantaggio competitivo, evitando quanto già avvenuto con l’acqua alta dell’euro che ha visto la buona parte del nostro sistema produttivo escluso per le resistenze ai necessari mutamenti innovativi.

Oggi c’è una maggiore consapevolezza di quanto occorra cambiare nelle istituzioni e nelle regolazioni perché il Paese possa partecipare alla crescita, ma il processo riformistico avviato è tuttora soggetto a varie interdizioni politiche. Un processo di accelerazione della prospettiva di crescita può nascere dal basso, dalla capacità delle imprese e dei lavoratori di convergere in obiettivi condivisi in grado di fornire guadagni reciproci.

Il tema della produttività nell’impiego delle risorse, cui legare la distribuzione di benefici economici tra i vari fattori produttivi in funzione del contributo dato, ritengo che possa giocare un ruolo importante nella rivitalizzazione della crescita.

Abbiamo alle nostre spalle un lungo periodo di moderazione salariale ma  il clup (costo del lavoro per unità di prodotto) ha svantaggiato le nostre produzioni, rispetto ai paesi concorrenti, a causa del rendimento decrescente nell’uso del capitale e lavoro.

Una combinazione a somma zero che ha giovato a nessun interesse né di parte né generale. Significativa, a tale proposito, la sorte dei premi di produttività, rispetto ai quali i lavoratori si sono soprattutto proposti di presidiare il beneficio economico nella sua entità, a prescindere dagli andamenti aziendali (Laboratorio Lombardia sulla contrattazione aziendale).

Ed anche quando, con riguardo soprattutto al comparto delle medie aziende più competitive sui mercati esteri, si sono ottenuti risultati positivi sul piano produttivistico e reddituale, i lavoratori non hanno di certo adeguatamente beneficiato né in termini di partecipazione che di aumenti salariali. Il problema, come scriveva K. Marx, non è soltanto la dimensione della zuppiera ma anche la dimensione del cucchiaio usato dai lavoratori.

Ritorniamo allora alla questione posta in precedenti Note ISRIL (n. 2 e n. 5 del 2015) questione che, partendo dal logoramento della moderazione salariale, propone un nuovo modello di politica programmata della produttività e dei salari, in linea anche con quanto sostenuto da alcuni economisti (Fadda, Messori, Ciccarone).

Una strategia per aumentare la dimensione della zuppiera, ma anche la dimensione del cucchiaio per il lavoratore.

 

2) L’ipotesi di programmare la produttività richiede di riposizionare tale concetto nell’evoluzione delle strategie aziendali. La produttività, soprattutto nella sua dimensione di produttività del lavoro (produzione/ora lavorata) è stata largamente utilizzata nella fase espansiva della produzione di massa, con effetti significativi sul reddito dei lavoratori e sulla crescita delle imprese.

Per quanto tale indicatore sia ancora usato nelle comparazioni internazionali, la sua significatività è stata scalfita dalla nuova divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione. Per i paesi industrialmente più avanzati e a maggiore costo dei fattori produttivi, la strategia quasi obbligata è quella di puntare più che sulla quantità sulla qualità del prodotto, sul suo arricchimento in termini di valore aggiunto, valorizzando risorse materiali ed immateriali più difficilmente riproducibili nei paesi in via di sviluppo. 

Questa “produttività qualitativa” si è rilevata di difficile misurazione, sia a livello di contabilità nazionale con l’uso dei tradizionali deflattori sia a livello di impresa con i tradizionali indicatori tecnico produttivi.

Da qui il ricorso sempre più ampio per il calcolo dei benefici di produttività ad indicatori economico finanziari elaborati sulla base dei bilanci aziendali, la cui distanza dalla prestazione lavorativa ha ulteriormente reso residuale il salario di produttività.

 

3) Uno più stretto ancoraggio salari-produttività pone il problema di misurare la produttività, includendo la componente di “arricchimento qualitativo” della produzione.

A livello di impresa il problema è stato affrontato in termini di misurazione “del valore” aziendale (Economic Value Added) così da massimizzare il rendimento del capitale investito sulla cui base remunerare gli azionisti e programmare gli investimenti futuri.

La piattaforma ideologica è che aumentare il valore per gli azionisti implica, quasi automaticamente, una ricaduta di benefici anche per i dipendenti, i clienti, i fornitori. La massimizzazione del valore azionario avrebbe la capacità di porsi come mezzo per il soddisfacimento di tutti gli interessi convergenti nell’azienda. Senonchè questa capacità di generazione del “valore aziendale” si deve calare nelle diverse aree produttive e nei relativi processi, incrociando la prestazione del lavoratore. Lavoratore che, in presenza di una riduzione dei livelli gerarchici aziendali e di tecnologie flessibili che prevedono interventi correttivi da parte dell’operatore, vede aumentare il suo ruolo entro dispositivi organizzativi a maglie più ampie. Si propone un gioco sincrono fra i diversi apporti professionali e un coinvolgimento del lavoro in una logica di “problem solving”  la cui ricaduta è quella di contribuire alla crescita del “valore aziendale”. 

 

 

Un primo problema che si pone è di valutare tale apporto in termini di maggiore “produttività” con modalità che combinano tra loro parametri tecnico produttivi ed economico-finanziari, definendo il beneficio per il salario che non è più lasciato alla discrezionalità del datore di lavoro. Un secondo problema è che la programmazione della “produzione di valore” è il parametro chiave per il management, su cui impostare le scelte strategiche, in ottica di medio-periodo, per garantire i capitali necessari per la sopravvivenza dell’impresa. 

Sussistono le condizioni potenziali perché il lavoro venga associato ai processi di programmazione aziendale, includendo la dimensione salariale fra le variabili che concorrono a definire gli obiettivi e a controllare i risultati della gestione aziendale.

Un ulteriore interrogativo che si pone è se questo modello di programmazione della produttività e dei salari possa essere sperimentato a livello di settore omogeneo. La risposta per oggi è no perché questo obiettivo  non è alla portata delle convenzioni statistiche in atto che presuppongono una omogeneità qualitativa dei prodotti nel tempo. Potrebbe essere assunto dalle parti sociali con la costruzione di appropriati “deflattori” in grado di riequilibrare nel tempo la partecipazione del capitale e del lavoro al “valore” aziendale prodotto sulla base di nuove convenzioni statistiche finalizzate allo scopo.

 

4) Si è consapevoli del salto di qualità rispetto alle attuali relazioni contrattuali e della mancanza di segnali incoraggianti da parte degli attori contrattuali.

Ma si è egualmente consapevoli che è inutile parlare di assetto contrattuale se manca una convergenza sui criteri di una politica salariale in grado di fare realmente funzionare tale assetto contrattuale. Se guardiamo alle migliori esperienze europee il percorso di condivisione delle politiche salariali è sostenuto da istituti di “sharing economy” che in qualche modo associano il lavoro al controllo (modello tedesco) o alla proprietà dell’azienda (modello Nord Europa). Da ultimo si pone il problema di gestire il rapporto inverso fra produttività-occupazione. Da qui traggono stimolo le pratiche europee di “sharing employment” affidate alla ridistribuzione del lavoro e al ruolo attivo delle parti sociali contraenti nel fornire sostegni ai redditi e servizi di riallocazione dei lavoratori in esubero, integrativi rispetto a quanto già assicurato dallo Stato.

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