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Ultima tappa: Gaza

Nessuno di noi sarebbe stato capace di sopravvivere a Gaza.

Nessuno di noi avrebbe avuto le risorse sufficienti per campare in un luogo così provvisorio, indigente, orribile e violento.

Questo quando Gaza era ancora in piedi, quando ancora si poteva parlare di Gaza City come di una città e poi del suo vasto intorno urbano. Ma ora anche l’orrenda Gaza City è stata in gran parte distrutta. Macerie e sventramenti, crolli e disperazione; esodi, traslochi e pianti.

Non tutta la città è scomparsa. È stata rasa al suolo in solo certe parti, ma il lutto si estende nello spazio e nel tempo ben oltre i confini urbani e i tempi cittadini. Un girone infernale dal domani incertissimo.

Oggi Gaza è il luogo più orrendo del pianeta: non è un’affermazione esorbitante, scriverlo. Se prima era pressoché invivibile, adesso è qualcosa di impossibile. 

Se già prima era grottesco immaginarla, adesso è la precarietà universale.

Gaza delenda est! La furia di Netanyahu dopo l’orrenda strage del 7 ottobre è stata spietata. Non lascia scampo a un giudizio storico successivo. O si crede che Netanyahu sia un benefattore del Medio Oriente perché cerca la fine politica di Hamas e la sua violenta, sanguinosa provocazione oltre misura, o lo si crede un farabutto che non riesce a controllare tutto il proprio odio politico, il proprio disprezzo umano e la propria sete di vendetta, oltrepassando con la sua azione risoluta ogni ipotesi bellica preventiva.

Fino a sfidare il giudizio internazionale delle Nazioni Unite, fino a rendere vacillante il supporto americano, fino a ridicolizzare in modo spregiudicato le attonite democrazie occidentali che si nascondono dietro lo slogan (forse oramai consunto) del “Due popoli, Due Stati”, fino a immaginare il Diritto Internazionale soltanto un farraginoso discorso privo di forza trasformativa e di regolamentazione tra gli Stati.

Non è una questione riducibile alle parole più adatte da usare, per chiarire la sostanza della politica israeliana a Gaza: se si tratti di genocidio, o di stragismo, o di pulizia etnica, o di tracotante sicurezza circa i propri mezzi militari a disposizione.

Siamo di fronte a qualcosa che va molto oltre la disputa sulle parole più adatte. Qualcosa di stratostato, di profondo, di incommensurabile.

1 C’è il mitico conflitto tra i due fratellastri Israele e Ismaele, tra israeliti e ismaeliti, tra ebrei e arabi. (Se qualche lettore a questo punto sorride, lo invito a leggere Genesi, capitoli 21-27 per cogliere tutta la drammaticità della questione).

2 C’è una sottostante tensione religiosa, forse una guerra tra religioni, sempre truccata, falsamente placata, falsamente tollerata, in realtà apertamente ostile. Un conflitto vecchio di secoli e mai estinto.

3 C’è il colonialismo occidentale bianco che si ritiene (chissà perché) legittimato a dominare, controllare il mondo, a dividerlo in nazioni arbitrarie e a segnare confini che diventano poi cicatrici della storia. (Gli inglesi sono stati maestri di questa arrogante posizione culturale).

4 C’è un sentimento di superiorità (razzista) verso i popoli arabi che in Israele è diffuso e quotidiano, direi normale (ricambiato dagli arabi, con gli interessi).

5 C’è “l’orientalismo” di cui scriveva Said: una rappresentazione delle popolazioni arabe da parte occidentale del tutto falsa e stereotipata che intende gli arabi come incapaci di darsi statuti politici autonomi.

6 C’è un sentimento di rivalsa di Israele colpito a freddo in una forma che rinnova antichi mai scomparsi fantasmi legati alle forme di persecuzione razzista subite. 

7 C’è una logorata reciproca sfiducia radicale tra le due parti, un odio maturato da secoli.

Si incolpa Netanyahu di eccesso di violenza. Probabilmente è verissimo. Ma chi ha il misurino per valutare dove stia la distinzione tra una risposta giusta e una eccessiva? Non esiste la misura perfetta. Così che tutti hanno torto e tutti ragione.

Infine, vorrei aggiungere qualche altra notazione.

Mentre per il sionismo questa guerra contro Hamas segnerà una svolta epocale ma non la sua scomparsa, e il corso di questa corrente di pensiero proseguirà aprendo una nuova tappa storica, quanto accadrà circa il futuro di Gaza, invece, possiamo dire che niente sarà più come prima.

Difficile dire quel che di preciso accadrà, ma di certo l’equilibrio territoriale e politico dell’area urbana della striscia sarà molto diverso dal precedente.

Gaza non è morta definitivamente. Il suo ruolo storico però sarà molto diverso. Affluivano a Gaza tutti i palestinesi scacciati dalla Cisgiordania e andavano a incrementare la popolazione residente nella striscia, così che gli abitanti di Gaza erano raddoppiati fino a arrivare a essere 2 milioni e quattrocento mila presenze. 

Quest’errore non sarà ripetuto, ma quale altra soluzione verrà adottata nei territori occupati da Israele? Si fonderà uno Stato palestinese? Tutto il mondo sembra concorde nel gridare si! Perfino Biden dagli USA!

Ma non sarebbe questo il più grande compenso politico che Hamas otterrebbe? Nel momento in cui lo slogan “Due popoli, due Stati” sembrerebbe finalmente ottenere un consenso politico generale, la posizione reciproca tra le due parti escluderebbe questa soluzione in modo più radicale che in passato.

La dirigenza politica israeliana sembrerebbe essere indirizzata verso la creazione di una vasta “area di rispetto”, non abitata, che separi Gaza da Israele. Una cintura di qualche chilometro che impedisca a Hamas di entrare a sorpresa in Israele come fu il 7 ottobre e viceversa a Israele di invadere direttamente Gaza. 

Queste “aree di rispetto” furono utili un tempo, ma oggi con le armi tecnologiche di cui sono muniti i contendenti, parrebbero essere alquanto formali e inefficaci.  

Penso che questi stratagemmi cadranno nel dimenticatoio. 

Forse bisognerà attendere le elezioni americane del Novembre 2024 per avere qualche fioco lume in più.

Intanto la guerra continua.

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